Medicina

I Navigli e la Fase Dubbia

8 Maggio 2020

Il tormentone estivo di quest’anno è in forse. Non ce la riusciamo proprio a immaginare la solita cazzatona reggaeton che ci inquina l’udito tra le bolle di plexiglass da cui guarderemo i flutti. Ammettiamolo, il contesto pandemico richiede colonne sonore decisamente più pensierose e meno ombrelloniche. Motivetti deprimenti non ballabili. Qualcosa con cui stroncare ogni velleità di relax o di ripristinata normalità. Qualcosa, magari, come le fatidiche “Tre T”: trace, test and treat. Ingredienti essenziali, stando agli epidemiologi, affinché la fase due non muti provvisoriamente in fase dubbia, per poi mutare definitivamente in fase zero. Ingredienti essenziali che, purtroppo, paiono latitare: distanziamento sociale e mascherine (latitanti anch’esse dopo la calmierazione) rimangono, allo stato dell’arte, le uniche armi (rudimentali) disponibili.

Peccato. Perché il modello-Italia, almeno per quanto concerne la fase uno, si è dimostrato efficace. L’estrema ratio del confinamento, una roba mai contemplata dalla topologia democratica, è riuscita ad addomesticare la curva epidemica. C’è voluto coraggio nel decidere l’inimmaginabile nell’ora più buia. Ci sarebbe voluta lungimiranza, per scongiurare ricadute funeste, nell’organizzare le riaperture. Una lungimiranza che le attuali matematiche della Covid-19, l’allentamento indiscriminato delle restrizioni su tutto il territorio nazionale e l’inadempimento delle “Tre T” sembrano, purtroppo, sconfessare.

Il 9 marzo, giorno in cui fu proclamato il lockdown, la Lombardia registrava 585 nuovi positivi e 96 decessi. Il 7 maggio, terzo giorno della fase due, la Lombardia ha registrato 689 nuovi positivi, circa il 50% dell’incremento del contagio dell’intero Paese, e 134 decessi. Vale a dire che i numeri, dopo quasi due mesi di confinamento, sono addirittura peggiorati. E il fatto che adesso si facciano più tamponi, argomento che dovrebbe relativizzare il peso dei dati sulla diffusione del virus, funziona poco quando si assume come indicatore il conteggio delle vittime, anch’esso di segno +. Per la serie: cosa potrà mai andare storto?

L’arcinoto Galli, primario di Malattie infettive dell’ospedale Sacco, in un’intervista rilasciata a Repubblica, non a caso, ha dichiarato senza mezzi termini che Milano, in questo momento, “è una bomba” perché ci sono “troppi contagiati in giro”. Un allarme autorevole che trasfigura, in chiave drammatica, le tipiche scene aperitivali dei navigli divulgate in formato fotografico in queste ultime ore: troppa distensione, poche mascherine e circolazione pedonale da “rompete le righe!”.

Sarebbe facile a questo punto snocciolare il solito pipponcino paternalistico impastato di inviti alla responsabilità e aromatizzato con una spolveratina di antropologia demenziale sulla diminutio ontologica patita dai milanesi una volta allontanati dal sacro rito dell’aperitivo. Ma il fatto è che il frequentatore dei navigli immortalato, nello scendere di casa, non poteva prevedere il quantitativo di umani che avrebbe dovuto fronteggiare una volta giunto a destinazione. Questo a Milano, a Napoli, a Roma e in qualunque altro luogo battuto dal sole primaverile.

Per cui, sorge spontanea qualche domanda: in primis, considerando le ultime rilevazioni epidemiologiche, non sarebbe stato meglio ritardare la riapertura della Lombardia per evitare un’eventuale recrudescenza del contagio? Secondariamente, è giustificabile sul piano scientifico l’adozione dei medesimi provvedimenti in aree geografiche che presentano una trasmissione della malattia completamente diversa? In fine, essendoci colpevoli ritardi organizzativi nei sistemi di tracciamento e testing, non suona quantomeno ipocrita da parte delle istituzioni lo scaricare addosso ai cittadini “irresponsabili”, peraltro autorizzati dallo stato a passeggiare sui navigli (come in qualunque altro posto), eventuali ritardi nell’abbattimento della curva epidemica?

Rassegnamoci, le risposte non arriveranno. Tuttavia, nell’attesa che ciò che appare improvvido si riveli azzeccato, non possiamo non evidenziare, attenendoci a diversi pareri competenti rimbalzati sui media in questi ultimissimi giorni, che l’espressione clinica di Covid-19 sta perdendo di intensità. Probabilmente più per merito di una diminuzione della virulenza dovuta alle misure di distanziamento che per merito di mutazioni genetiche significative subite da Sars-Cov-2.

Ebbene, non vorremmo che si trattasse di una riproposizione anacronistica del racconto originario che assimilava Covid-19 a una sorta di influenzona o addirittura, per i complottisti, a una febbre dal sapor di Don Abbondio. Anche perché se le pressioni di Confindustria per “il liberi tutti” non desistevano nemmeno con i monatti ai citofoni, chissà fin dove potrebbero spingersi alle prime avvisaglie, sebbene non comprovate, di sgonfiamento virale. Un altro #MilanoNonSiFerma proprio non possiamo permettercelo.

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