Medicina
E se dovessimo conviverci a vita col maledetto virus?
Qualche giorno fa, interrogato sui decreti che restringono le nostre libertà personali, il professor Azzariti ha ricalibrato l’asticella dei diritti: “Sono costituzionali, a patto che abbiano un’estensione limitata nel tempo”. Il che significa che prima o poi devono finire. Per tutto il tempo in cui “vivono”, quei decreti sono protetti dall’articolo 16 della nostra Carta: «Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche».
Il paradosso è che in questo caso l’estensione non la decideranno gli umani, ma un maledetto virus. Gli italiani hanno subito questa amputazione delle libertà personali in modo complessivamente compatto, consapevoli della gravità del momento. Ma vive e brucia un secondo paradosso, questo sì davvero insopportabile: che gli italiani devono subire enormi limitazioni alle libertà personali senza aver fatto nulla di male.
Erano moltissimi anni, dai tempi del terrorismo, infatti, che non si richiamava alla memoria quella parola – “emergenza” – da cui conseguenti leggi speciali. Ma in quel tempo difficile, l’obiettivo non era, in modo indistinto, l’intero corpo della popolazione, com’è oggi. Anzi, a quel tempo il fenomeno dello stare insieme, del vivere meglio gli anni di piombo, era addirittura l’obiettivo di uno stato mentale. Allora, i diritti personali si restrinsero per un nucleo più ristretto di cittadini, coloro i quali cadevano sotto le maglie della giustizia, che a quel tempo prevedeva modi alquanto spicci: perquisizioni senza autorizzazione del magistrato, “fermo” sino a 96 ore, lunghissima carcerazione preventiva e molto altro. Per battere il terrorismo, si pensò che queste fossero le condizioni migliori. Sostanzialmente uno stato di polizia (immenso, per fortuna immenso, fu il dibattito all’epoca).
Qui siamo invece a leggi emergenziali in tempo di pace. Tempo di pace su scenario di guerra, perché il deserto delle nostre città è una cornice spettrale che toglie alla pace il suo connotato più definito: la tranquillità sociale. Ora la domanda che sorge su queste macerie sanitarie è quanta parte di noi possiamo concedere ancora all’emergenza, fino a quando saremo in grado di spostare sempre più in là la tollerabilità fisica e psichica di questa condizione di cattività. È troppo semplicistico rispondere: beh ovvio, sino quando non avremo piegato il maledetto Coronavirus. E se sopravvivesse a tutti gli sforzi della scienza, se si dovesse estendere a tal punto – e ottimisticamente definiamola pure un’ipotesi dell’irrealtà, ma esiste – da non avere mai una fine? Condensando, in una sola inquietante domanda: e se dovessimo conviverci a vita?
Prima di esaminare la terribilità di questa condizione definitiva, cerchiamo di battere terreni solo apparentemente più leggeri, ma molto significativi. Lo facciamo pescando qua e là dai nostri commenti quotidiani, sparsi e postati in ogni dove. Prendiamo un pensiero di Mario Lavia, bravissimo giornalistico politico, che un paio di giorni fa su Twitter, per amici e conoscenti, con solo apparente leggerezza ha scritto: “Ma voi riuscite a leggere romanzi impegnativi in questi giorni?” Ne è nata una discussione piuttosto istruttiva, sulla dorsale impegno/disimpegno, che alla fine ha messo sostanzialmente in luce il lato incontrovertibile della difficoltà di un “abbandono”. Al di là di quattro ladruncoli di verità che opponevano tomi definitivi, gli altri, in buona sostanza, confessavano la difficoltà a mantenere alta quella serenità necessaria alla concentrazione. Per cui, chi interrompeva, partendo sparato e poi allentando, chi da subito imboccando la via della leggerezza. E chi stava in mezzo, sperando inutilmente in un’illuminazione. Tutto ciò valeva molto in termini di descrizione dell’animo umano, evidentemente turbato, lesionato nel suo tessuto vitale, dunque non in grado di riprendere i fondamentali di una vita normale, pur avendo tutto il tempo del mondo a disposizione per leggere qualche buon libro.
Questa “impazienza” coatta è certamente un segnale molto significativo. È la radice di qualcosa di molto più profondo, che corrode, che quotidianamente si insinua nella nostra mente e lavora, subdolamente, alla privazione delle nostre energie positive, cercando di ridurle, con l’obiettivo addirittura di azzerarle. Quanto fieno in cascina abbiamo per rispondere a questo attacco senza volto, di quante risorse buone disponiamo, forse abbiamo necessità di sapere tempi certi, definiti, è questo che il nostro cervello vuole sentire per poter resistere? Sotto questo cielo, le due settimane che il governo ha posto come capo di buona speranza, quel 3 aprile fatidico, possono essere un’arma a doppio taglio. Una condizione pericolosa a cui, malauguratamente, restare appesi.
Perché ora, tutti noi abbiamo introiettato quel dato temporale, gli abbiamo attribuito un valore più che assoluto, ci aspettiamo per quel giorno la “buona notizia”. E una buona notizia, badate bene, per prolungare una pena, per dare almeno una giustificazione plausibile alle nostre privazioni, alle nostre sofferenze. Perché certamente si estenderebbero nel tempo, ma con un orizzonte minimamente più sereno. Ecco. E se il 3 aprile questa buona notizia non ci fosse? Possibile. Anche il professor Galli, presidio autorevole di equilibrio e competenza, non dà garanzie, se lo auspica naturalmente, ma ragiona scientificamente e parla sempre (sempre) di una lunga condizione.
Sulla nostra stabilità mentale, rispetto a una possibile dilatazione dei tempi, non vi è nessuna certezza. Quello che è accaduto qualche giorno fa, alla notizia della chiusura della Lombardia, è la perfetta rappresentazione dell’animo umano quando sente (o crede) che la barca sta per affondare. Migliaia di persone sono letteralmente scappate da Milano, raggiungendo il sud Italia. Molte di queste migliaia hanno contagiato i luoghi che hanno raggiunto. Un disastro. Ora c’è da tremare pensando a quel 3 aprile, pensando anche alle limitazioni della libertà di cui si parlava. Quanti saranno disposti, in assenza di buone notizie, a prolungare quella condizione, quanti riusciranno a pescare nel proprio profondo nuove energie positive per continuare a vivere una vita “normale” nell’emergenza? Ciò che sottolineava il professor Azzariti, che per giustificare leggi speciali l’emergenza deve avere un tempo definito, è questione seria, da costituzionalista. Ma se quella condizione non dovesse avare fine, se il tempo di convivenza – noi e questo maledetto Covid-19 – fosse anche maledettamente lungo, quel governo potrebbe tenere i cittadini rinchiusi eternamente in casa?
Forse è questa una chiave. Non sperare nel meglio, ma attrezzarsi al peggio. E non perché sia un’ipotesi di pura suggestione, ma perché è assolutamente possibile che noi si debba convivere con un virus per anni e anni. È un’impresa difficile, quasi al limite umano, immaginare il peggio, il tempo lungo del peggio. Ma potrebbe restituirci quelle energie che la sola speranza di uscirne ci sta togliendo giorno dopo giorno.
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