Costume
Covid 19 e la cultura della performance che aiuta il diffondersi della pandemia
Tutto è iniziato con una pubblicità. Eravamo in coda agli anni Novanta, in un presente che ancora sembrava proiettarci, giorno dopo giorno, verso un futuro di benessere sempre crescente. Dallo schermo modelle e modelli ci raccontavano che “voi valete” e “l’uomo non deve chiedere mai”. Il successo ci era dovuto o, quantomeno, un giro in giostra non poteva essere negato a nessuno, ma bisognava andare, esserci, stare sempre sul pezzo. Mentre film e telefilm raccontavano di manager rampanti con telefonini che facevano a gara in dimensioni con code e codini delle capigliature femminili, il nostro modo di percepire la malattia veniva radicalmente rivisitato dalla pubblicità di farmaci che promettevano di “allontanare il letto” e alleggerire i sintomi dell’influenza così da rendere possibile il mantenimento dei fitti appuntamenti della nostra agenda.
Ufficio, partita a tennis, lezione di yoga, cena con gli amici: perché rinunciare a tutto questo quando basta una compressa? Lentamente cambiava il discorso pubblicitario: da un farmaco che, stando a casa a riposo, ti permetteva di arrivare a sera quasi risanato, al miracolo della guarigione immediata, quantomeno per non perdere nessuna opportunità.
Si andava poi sempre più diffondendo un sistema di lavoro – flessibile, autonomo, dinamico, imprenditore di sé stesso – che metteva in seria discussione i diritti acquisiti negli anni precedenti. Quelli che per comodità potremmo indicare come “l’epoca delle garanzie”, breve intermezzo fra un ante guerra da padroni delle ferriere e il mondo precario post crisi che conosciamo ora. Che si trattasse di una scelta di vita (ve la ricordate la professione di PR, ormai quasi scomparsa dal nostro vocabolario professionale?) o di un bisogno, anche la necessità di una performance costante entrava a far parte del nostro percepito quotidiano.
Correre fa bene, fermarsi no.
Se per i nati nell’epoca pre anni Ottanta il messaggio è arrivato, ma con qualche sbavatura, tutti gli altri sono cresciuti secondo questo mantra. Arrivati in età adulta si sono così ritrovati, per una serie di problemi del sistema economico mondiale e per una massiccia e invasiva comunicazione quotidiana, a vivere in una realtà accelerata, dimenticandosi di avere diritto di replica. La performance a tutti i costi è necessità e desiderio e le due cose si legano così strettamente da diventare un fatto culturale. Chi si ammala è fuori dai giochi. Chi si ammala resta indietro. Il miglioramento dei farmaci sintomatici delle malattie invernali più comuni – raffreddore e influenza in primis – nati per accelerare un processo di guarigione “tradizionale”, ovvero con un periodo di riposo a casa e in isolamento sociale, è diventato il viatico per il superuomo (o superdonna) che può finalmente concedersi il lusso di passare la malattia in piedi. La figura del “malato operativo” è diventata un topos di film e serie tv, condizionando fortemente l’immaginario e l’autorappresentazione individuale. E se un tempo con qualche linea di febbre, a fronte di un invito a cena, la risposta era “non mi sento in forma, meglio che stia a casa, sarà per la prossima volta”, ora si trasforma in un “passo da casa, prendo qualcosa e arrivo”. Senza sconfinare in teorie complottistiche senza alcun fondamento, si può dire che questa prassi si adatta in modo ottimale allo stile di vita odierno di buona parte della popolazione occidentale, ovvero un delicato – ma ben organizzato – equilibrio fra crescenti esigenze lavorative (in termini di tempo e di impegno speso in rapporto all’effettiva resa in termini di realizzazione economica e sociale) e un privato che, a sua volta, richiede grande impegno e che ci ha disabituati fin dall’infanzia alla gestione della solitudine e dei tempi morti o non organizzati.
Mentre infatti le generazioni precedenti hanno vissuto un’infanzia con minori risorse, spesso poco curata dal punto di vista dell’attenzione al tempo libero dei più piccoli, i nati a partire dagli anni Settanta hanno beneficiato di un aumento delle possibilità fuori dal contesto strettamente educativo e delle risorse investite per gestire al meglio il loro tempo. Per questi bambini di allora e adulti di oggi gestire il vuoto e il confronto con sé stessi senza l’intermediazione di impegni prefissati e contesti strutturati è una sfida e se farlo per scelta è già difficoltoso, farlo per un “fermo forzato”, come in caso di malattia, può portare a condizioni di rifiuto. Da una parte quindi la costante sensazione di perdersi qualcosa (vera e propria patologia definita come Fear of missing out), acuita ancora di più dai social network, che – di fatto – ci obbligano a vedere e considerare tutto ciò che sta avvenendo nel mondo fuori da noi, dall’altra l’impossibilità di far fronte a una noia che denuncia spesso scarsa cura per la crescita individuale, dei propri interessi e passioni in qualità di singoli (quel sano egoismo che abbiamo sperimentato da bambini, quando riuscivamo ad immergerci a tal punto in un nostro interesse da non sentire alcun richiamo da parte degli adulti), portano ad un rifiuto di tutte quelle condizioni che impongano di fermarsi. Questo senza nemmeno considerare l’inevitabile confronto con le proprie scelte di vita che, facilmente arginabile nel continuo movimento, emerge nei momenti di stasi.
La malattia, lieve o grave, imporrebbe questo arresto, sia da un punto di vista di utilità personale (una più rapida e sicura guarigione, nessun protrarsi della convalescenza), che da un punto di vista sociale per evitare i contagi. Tuttavia, con la diffusione massiccia dei farmaci sintomatici da banco, una febbre leggera, un leggero raffreddore, un po’ di mal di gola o di pancia sono passati da mali a scuse per evitare un impegno o ostacoli per il proprio divertimento. Non andare a lavorare con poche linee di febbre o un semplice mal di pancia è considerato sconveniente quando siano presenti le dovute tutele del lavoro – “Si è messo in malattia per una sciocchezza” – insostenibile per lo stesso lavoratore quando queste tutele siano negate: “Se mi fermo per un mal di gola non arrivo a fine mese”. Il concetto di necessità, tuttavia, si è anch’esso evoluto nel corso degli ultimi decenni e le generazioni del “è tutto intorno a te”, considerano necessario anche ciò che è differibile o accessorio, complice, per onestà intellettuale, la crescente diminuzione delle tutele lavorative.
“Se devo andare al lavoro con qualche linea di febbre allora posso andare anche fuori a cena”.
L’autorizzazione alla mancanza di cura per sé e per il prossimo – della cui salute raramente ci siamo occupati prima che l’attuale pandemia ci facesse riscoprire il potere devastante che può avere una persona infetta sul contesto che la circonda – ci arriva dunque da più parti: per dovere e per piacere e questo imput è così radicato in noi da essere diventato fattore culturale determinante in occasione della diffusione di malattie. Nulla ci ha impedito, in occasione delle scorse stagioni influenzali, di scansare il vaccino, uscire con qualche linea di febbre, non osservare le basilari regole igienico sanitarie e infettare tutto il nostro contesto sociale. Senza porci alcun problema rispetto alle ripercussioni per chi si trovasse già in condizioni di scarse difese immunitarie o fosse portatore di patologie debilitanti. L’epidemia attuale impone un fermo forzato, il primo dal dopoguerra, e pone davanti alle difficoltà di realizzazione di questo fermo dovute in larga parte al sistema economico nel quale viviamo (pensato per non interrompere mai il ciclo produzione/consumo), ma anche a ragioni di tipo culturale, legate all’incapacità degli individui di comprendere la necessità di un limite per questioni sanitarie.
D’altra parte, per decenni ci hanno ripetuto che questo limite non era necessario, anzi andava superato.
Per cambiare davvero le cose non basta quindi un generico appello alla coscienza civile dei cittadini, ma un drastico cambio di rotta, un nuovo percorso educativo, a partire dalle nuove generazioni, che rimetta la persona al centro e non solo il soddisfacimento di un bisogno, sia esso individuale o di mercato. Per le generazioni che invece si confrontano attualmente con il tema sarà necessaria una forte presa di coscienza, capace di mettere in discussione quanto appreso negli anni di formazione, arrivando ad un percorso di emancipazione attraverso il sacrificio dell’abitudine. La strada è complessa, ma è il solo modo per passare da una società in costante fase adolescenziale ad una società adulta.
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