Medicina

I Big Data cambieranno le tue cure, non solo quelle di Angelina Jolie

27 Marzo 2015

Si parla sempre più spesso di “medicina personalizzata” come evoluzione della scienza medica: prendere in considerazione ogni paziente nella sua unicità, pensando diagnosi e cure solo per quella persona, in un’ottica che punta sempre più alla prevenzione. Il caso più famoso, tornato alla ribalta in questi giorni dopo la nuova decisione di procedere all’asportazione delle ovaie che segue alla mastectomia eseguita nel 2013, è quello di Angelina Jolie. Al di là del caso specifico e del dibattito che ha suscitato, anche sull’onda della notorietà planetaria della star, la questione è destinata a diventare sempre più rilevante, e non solo per la vita dorata di attori multi-milionari.

Se l’approccio non è nuovo – un medico si informa dello stato di salute di genitori e nonni prima di prescrivere una cura –  nuovi invece sono metodo e strumenti: la medicina personalizzata “del futuro” ha l’ambizione di creare una cura per te e solo per te. E questo servendosi anche della genetica: attraverso il sequenziamento del DNA, ovvero la lettura del codice genetico di ciascuno di noi, infatti, c’è la promessa che sarà possibile anticipare e prevenire le malattie alle quali il nostro Dna ci ha “condannato”.

È già possibile? Sì, almeno in parte

Intanto il costo è sceso, drasticamente. Nel 2010 sequenziare il Dna completo di un essere umano costava 100mila euro, nel 2011 si è passati a 20mila.   Nel gennaio scorso costava ancora 10mila euro, mentre qualche mese fa è uscita la notizia di sequenziatori da 1000 euro.  «E tra cinque anni ne costerà 100», dice Domique Dupargne, medico francese che si occupa, oltre che dei suoi pazienti, di Medicina 2.0: a quel punto, dice, «fare un test del Dna sarà banale come un esame del colesterolo» e la quantità di dati a disposizione inizierà ad aumentare in maniera esponenziale. Se il costo del sequenziamento è sempre meno proibitivo, sono invece poche le strutture che possono ospitare, gestire e leggere grandi, enormi, quantità di dati.

Non ti sei ancora fatto sequenziare il Dna? Tra poco lo farai

Sono tantissime, soprattutto in America, le società che per qualche centinaio di dollari (o qualche migliaio) possono fornirti una mappa più o meno precisa del tuo codice genetico. Mashable in occasione della notizia riguardante la mastectomia di Angelina Jolie, che ha deciso di eseguirla proprio dopo un esame genetico, ha elencato alcune delle maggiori aziende che offrono sequenziamenti, totali o parziali, del Dna.

23andMe: per 199 dollari si riceve a casa un kit di lettura del Dna e in poche settimane si ha la sequenza, la previsione medica e l’accesso al loro database per la ricerca di connessioni famigliari.
Nel marzo del 2013 23andMe aveva il codice genetico di 200mila persone, nell’ottobre del 2014 di 750mila. Il  90% di coloro che richiedono il loro test concede all’azienda il permesso di usare i loro dati per la ricerca. I dati raccolti si elevano quindi a milioni. 23andMe è la più importante azienda che si occupa di test genetici. A capo una donna, Anne Wojcicki, che è anche la moglie del co-fondatore di Google, Sergey Brin. Google ha investito nella compagnia, già alcuni anni fa, 3.9 milioni di dollari.

DeCode Genetics: azienda islandese che ha i dati di oltre 500mila persone. Il costo per un sequenziamento è di circa 1.100 dollari.
Gene by Gene: offre test da 195 dollari, fino a 950, a seconda dell’uso e del profilo di cui si ha bisogno.  GenebyGene dice di avere un database di 704.586 dati di alberi genealogici con i quali confrontare i tuoi.
Gene Plantet: azienda inglese che offre test genetici da 499 sterline
DNA Ancesty: è specializzata in ricostruzione di alberi genetici. La ditta dice di avere miliardi di dati e diversi milioni di alberi genealogici completi nel suo database. I suoi test partono da 99 dollari.

Su questi test ci sono molte cose da dire: «Intanto 23andMe è stata bloccata dalla Food and Drug Administration perché dava dei risultati clinici senza una vera autorizzazione: c’è in corso un processo per tornare a lavorare a pieno regime. I dati che fornisce sono affidabili su molte cose, indicativi su altri», dice Davide Cittaro, responsabile del gruppo di Bioinformatica del San Raffaele. Cittaro, che si occupa di genetica, spiega che «i dati che forniscono sono espressi come “aumentato fattore di rischio”. Se il tuo fattore di rischio rispetto al cancro allo stomaco è aumentato del 5% rispetto al resto della popolazione, non vuol dire lo svilupperai. Ovviamente: se fumi aumenti il tuo rischio di cancro al polmone, ma non significa che lo prenderai; se utilizzi l’auto ogni giorno aumenti il tuo rischio di morire in un incidente stradale. Quindi sì, questi test sono affidabili. Ma vanno letti come “il tuo rischio di X è Y”, affermazione fatta sulla base della conoscenza genetica che abbiamo ad oggi. E soprattutto per quello che loro (queste società, ndr), posso leggere. Punto. Quella è l’unica informazione che va presa per vera».

 

Il business della salute

Il business della salute, dice il Wall Street Journal, è un mercato in espansione: nel 2017 varrà 10,8 miliardi di dollari (dati Freedonia Group) e ha iniziato a suscitare l’interesse di chi si occupa di informazione e tecnologia. Google, Samsumg, Apple e Ibm, infatti, stanno guardando a questa industria: ricerca, investimenti, infrastrutture e assicurazioni sono i mercati che genereranno maggiore profitto. «Se Google vuole veramente gestire il mondo dell’informazione deve considerare il DNA, il più personale dei dati» diceva nel 2007 Kevin Kelleher su GigaOm, commentando la notizia, che ancora suonava incompressibile, dell’investimento di Google in 23andMe.

Secondo Dominique Dupargne il carattere previsionale della medicina personalizzata (genetica) è farcito da molto ottimismo e molto marketing: «È il business del momento, ma quando siamo finalmente riusciti a codificare il DNA abbiamo scoperto che conteneva meno di quello che ci aspettavamo». Della stessa opinione Sandrine de Montgolfier, professore all’IRIS.EHESS di Parigi in Storia delle Scienze e della Bioetica, che sul sequenziamento completo ha dei dubbi: «Sì, si può fare, ma a che serve? Se in un laboratorio hanno un dubbio rispetto ad una patologia, ti cercano quella. I sequenziamenti completi che vengono venduti pongono un problema di interpretazione: senza le informazioni epidemiologiche necessarie questi dati non servono a nulla».

Perché? Le informazioni per avere senso vanno incrociate: «Se la media di incidenza del Parkinson è l’1%, e con un test DNA ti dico che stai al 10% nella tua vita che cambia?», spiega Dupargne. Se invece ho i dati di milioni di individui, l’incidenza della malattia, l’incidenza delle cure, ecc… allora il dato mi dice qualcosa. Il sequenziamento e la sua lettura hanno senso solo nel confronto con altri – molti – dati.  Diversa è la questione per alcuni tipi di geni, come il BRCA1 e 2, di cui si è parlato sempre a proposito dell’intervento della Jolie: «Sono pochi i casi dove c’è un solo gene, conosciuto, che porta a una malattia. Questa è l’esempio, ma è anche eccezione», dice Dupargne.

Ed è qui che i Big Data entrano in gioco

«Immagina si possa mettere in un computer il genoma di milioni di individui e che siamo capaci di seguirli per un certo numero di anni, per conoscere quali malattie hanno, se e come funziona un farmaco… che siamo in grado di trovare legami statistici tra le persone e la reazione ai prodotti. Potremmo ricavarne insegnamenti molto solidi», continua Dupargne. La capacità di prevenire arriva in un secondo momento: «Partendo dal genoma di un individuo» – spiega Dupargne – «e avendo alle spalle tutti questi dati e questi risultati, posso fare delle previsioni su come trattare al meglio la tua malattia». Raccogliendo, stoccando e interpretando grandi quantità di dati sarà quindi possibile fare della medicina preventiva. Per questo dal lato “tecnico” sono necessarie due cose: la capacità di gestire questi dati e il sapere creare (e usare) strumenti che permettano di trattarli e interpretarli.

Lo stato dell’arte: come le aziende del Web investono nella medicina

Ibm e Watson: il “super computer” del quale si parla già da un po’ (è quello che ha battuto gli “umani” a Jeopardy! nel 2011, ndr) . Il computer prende il nome del fondatore di Ibm, è stato creato per rispondere alle domande, a tutte le domande.

Le applicazioni di Watson sono già tante e, potenzialmente, infinite. Dal punto di vista medico Watson è già usato: un paio di anni fa si è cominciato con le diagnosi e ora si va verso la ricerca con Watson Discovery Advisor (WDA) e Johnson & Johnson. Come? Gestioni dati: WDA gestisce i dati di ricerca, li stocca e li elabora. Per capirci: ogni 30 secondi (dati CiteSeerx e National Institutes of Health, riportati da IBM) viene prodotta una pubblicazione scientifica, mentre la media di lettura di un ricercatore (che non ha una vita sociale, ndr) è di 23 pubblicazioni al mese. Il Watson Discovery Advisor ha già permesso, incrociando i dati di ricerche diverse, di identificare sei nuove proteine essenziali nella cura e nella prevenzione di alcuni tipi di tumore.

È già attivo un programma di supporto per i veterani di guerra in partnership con la United Services Automobile Association (Usaa), impresa finanziaria che collabora con l’esercito Usa (e che si occupa, tra le altre cose, di assicurazione): qui i veterani vengono consigliati su come adattarsi alla vita civile.  Si tratta di un’applicazione che risponde a domande: comprare una casa, come trovare un lavoro o che contratto di assicurazione scegliere. Un business che coinvolge 155mila persone ogni anno.

Per finire con le mille applicazioni di Watson – medico, ricercatore, coach, cuoco – arriviamo finalmente alla genetica: il supercomputer lavorerà con il New York Genome Center e si occuperà di aiutare gli oncologi a creare cure basate sul DNA per combattere il glioblastoma, una forma di cancro al cervello. IBM prevede che Watson sia completamente operativo in cinque anni: un sistema di questo tipo permette analisi accurate e, soprattutto, multidisciplinari. Se oggi i medici sono sempre più specializzati questo, a volte, può comportare una perdita del quadro generale. Farsi diagnosticare da Watson in fondo permetterà di mettere insieme molti specialisti, tutti nella stessa scatola, che però hanno già “visto” milioni di pazienti.

«Nell’arco di cinque anni, i progressi nella big data analytics e negli emergenti sistemi cognitivi basati sul cloud, unitamente ai progressi nella ricerca e sperimentazione della genomica, potrebbero aiutare i medici a diagnosticare con precisione il cancro e a creare piani terapeutici personalizzati per milioni di pazienti. Macchine intelligenti cattureranno l’attività dell’intera sequenza del genoma e perlustreranno vasti archivi di cartelle cliniche e pubblicazioni per apprendere e fornire in modo rapido agli oncologi suggerimenti specifici e perseguibili sulle opzioni terapeutiche. La cura del cancro, personalizzata fino a livello genomico, è all’orizzonte fin da quando i ricercatori hanno sequenziato il genoma umano, ma pochi medici hanno gli strumenti e il tempo per poter valutare i suggerimenti disponibili. Nell’arco di cinque anni, i sistemi cognitivi basati sul cloud potranno rendere disponibile questa medicina personalizzata su ampia scala e a velocità che, in precedenza, erano impossibili», dicono da IBM.

Google

Google chiaramente non è da meno per quanto riguarda la ricerca medica. Anzi è probabilmente estremamente all’avanguardia. È proprietario di Calico, che ha fondato e, come dicevamo, ha investito in 23andMe. Entrambe si occupano di genetica: come studiare il DNA e come prevenire malattie, in particolare l’invecchiamento e i disturbi connessi. Dalla gestione di Calico è passato Arthur Levinson, che è stato anche alla testa di Genentech (un gigante, se non “il” gigante delle biotecnologie) e nel consiglio di amministrazione di Apple.

Sempre di genetica si occupa Google Genomics: un portale dove Google propone ai laboratori di ricerca di mettere on line in un cloud, i dati genetici in possesso dei ricercatori. BigG si propone di creare, per loro, una API di gestione.

https://www.youtube.com/watch?v=ExNxi_X4qug

Perché mettere il genoma in un cloud? «Immagine che tuo figlio abbia una rara malattia genetica. O che sia tu ad arrivare in ospedale con un cancro. Comparando la sequenza di un genoma con milioni di altre in un database, possiamo capire come curarti meglio», spiega Sarah Zhang su Gizmondo. Chiaramente un database di questo tipo è più efficace se oltre al DNA ha tutta una serie di altre informazioni: età, sesso, abitudini, residenza, ecc. Big Data insomma.

Google, inoltre, ha anche lanciato uno vero e proprio studio medico-scientifico, il Baseline Study, un progetto che punta sulla salute umana: archiviare un quadro il più preciso possibile di dati fisici, genetici e comportamentali in modo da schedare “l’essere umano tipo in salute”. In questo modo ogni elemento che esce fuori dallo “schema” può essere intercettato in anticipo. Il principio è di facile compressione: qualunque malattia prima di manifestarsi (e farci andare da un dottore) lavora nel nostro organismo senza che ci rendiamo necessariamente conto di averla. Se la “baseline” cambia, qualcosa è cambiato anche nella nostra salute.  Il Baseline study, è gestito da un biologo molecolare, Andrew Conrad, che guida un’équipe di 70/100 persone, tra medici, biologi, ma anche filosofi e oftalmologi. Conrad è a capo della sezione Life Sciences di Google X.

Lo studio è realizzato in collaborazione con i dipartimenti di medicina della Duke University e della Stanford University. Il segreto sono sempre i dati, tanti dati, e le tecnologie: raccogliendo molti dati Google vuole trovare un algoritmo che metta in evidenza i fattori di rischio. In parole semplici: prevenire. “Prima di fare della prevenzione dobbiamo capire quali sono i meccanismi che regolano il corpo umano sano”, ha detto Conrad al Wall Street Journal.
Il progetto è partito con 175 volontari. Di questi vengono raccolti campioni di liquidi (urine, sangue, saliva) per sequenziarne il DNA, la storia genetica famigliare, i meccanismi digestivi, le reazioni ai farmaci, i dati biometrici (battito cardiaco, pressione, sangue, valori… ).Il progetto prevede una raccolta di dati per i prossimi 10 anni e intende coinvolgere migliaia di partecipanti.

Google ha fatto sapere che i dati verranno raccolti e stoccati, ma resi del tutto anonimi. Il progetto, dicono, verrà condotto con gli standard etici e professionali universitari. Larry Page ci ha tenuto a precisare che Google non fa Data mining, ma se lo facesse, ha aggiunto: “Probabilmente il prossimo anno saremmo in grado di salvare 100mila vite”.
Allo stesso tempo Google si è anche dedicato alla prevenzione attraverso uno studio sulle nanoparticelle che aiutano a trovare i malfunzionamenti cellulari: una proteina che causa il cancro, un problema che può portare ad un infarto… Queste nanoparticelle sarebbero legate via onde radio a un braccialetto, che permette di leggerne i comportamenti. Il progetto fantascientifico  dovrebbe vedere la luce tra 7 anni, è sempre gestito dal dottor Conrad che ha dichiarato alla BBC:  «Quello che stiamo cercando di fare è cambiare la medicina: da reattiva e trasazionale a protattiva e preventiva».

Google dice che questa ricerca «è un contributo alla scienza, non ha lo scopo di aumentare i profitti dell’azienda». Stessa affermazione viene fatta dal dottor Conrad per quanto riguarda le sue ricerche: «Noi inventiamo la tecnologia, ma non abbiamo intenzione di commercializzarla o di monetizzarla nella maniera “alla Google”». Le ricerche sono state rese pubbliche perché l’azienda sta cercando dei partner.

Questi progetti sono gestiti da Google X, la fantomatica direzione futuristica di Google (la stessa dei Google Glass, delle lenti a contatto contro il diabete e della Google Drive).
Queste ricerche hanno comunque dei vantaggi evidenti che vanno oltre i profitti possibili di Google: in termini di salute pubblica una medicina preventiva di questo tipo potrebbe ridurre drasticamente i costi per le cure. E per la medicina sarebbe probabilmente una rivoluzione: intervenire sulla prevenzione invece che sulla cura aprirebbe degli scenari di grande interesse, potendo migliorare notevolmente la qualità di vita dei futuri pazienti.

I Big Data possono cambiare completamente il paradigma scientifico attuale (fare un’ipotesi, verificarla con un protocollo), e la cosa ha dei lati positivi: «Avere migliaia di dati su milioni di persone e di incrociare tutto questo per vedere cosa esce sul piano statistico; moltiplicare per mille o per un milione la possibilità di trovare dei legami insospettabili attraverso la semplice osservazione: tutto questo è assolutamente appassionante ed è senza dubbio il futuro della scienza medica, è da qui che verrà il progresso (…). Invece di avere complicati protocolli da mettere in pratica avremo tantissimi dati, e dovremo solo trovare i legami che li uniscono», spiega Dupargne.

C’è anche il rischio di vedere in questi dati un eldorado che non c’è: «Il Big Data da solo non ti risolve il problema, te lo risolve quando il Big Data è costruito in modo da avere sempre le comparazioni che vuoi fare. In ambito scientifico è estremamente importante il disegno sperimentale: se questo è sbagliato perché, ad esempio, non hai inserito dei controlli appropriati, puoi avere tutti i dati che vuoi, ma ti potrebbero dire qualcosa di incorretto. Il dato parla a seconda di come lo interroghi. È chiaro che quello che facciamo oggi, ovvero sequenziare gli individui, è una cosa che fino a qualche anno fa era assolutamente impensabile per i costi. È chiaro che si tratta di  un’enorme facilitazione per il lavoro che verrà fatto in futuro: si potranno testare tantissime ipotesi che prima non si potevano testare. Rimane il fatto che bisogna stare attenti a come si guardano questi dati. I Big Data vengono studiati per una specifica domanda ma potrebbero rispondere a migliaia di altre domande che non vengono fatte», commenta Davide Cittaro.

Come monetizzare questi dati?

Leo Kelion, technology desk editor alla BBC sostiene che il fatto che Google investa in questo campo rappresenta, di per sé, un segno importante delle tendenze future. Ma quello che lo preoccupa non è la privacy che, scrive, è piuttosto un “grattacapo” per Google: troppe leggi e ostacoli da abbattere. Secondo Kelion non siamo di fronte a uno scenario che vede pubblicità di cure legate al nostro DNA: la questione redditizia, scrive, si apre per le aziende che investono nel mercato dei brevetti.
Nel 2013, dopo un periodo di processi e appelli per la questione BRCA1 e 2, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha deciso che il DNA nella sua forma naturale non può essere brevettato. Quello che è possibile fare, invece, è brevettare un gene isolato, se si dimostra che ha una utilità specifica. Per esempio se un ricercatore scopre un gene e dimostra che questo può servire a creare un farmaco che cura una malattia.

«Penso che le imprese private che si occupano del sequenziamento del DNA siano interessante a conservare il massimo di dati per crearsi delle banche e poterli studiare, incrociare e cercare dei geni di predisposizione, che poi possono diventare un brevetto. Credo che per ora vadano un po’ a tentoni, senza sapere cosa troveranno. Nel frattempo conservano dati», dice  Sandrine de Mongolfier. «Oggi non abbiamo abbastanza dati per poterli studiare in maniera chiara. Chi arriverà ad avere un massimo di campioni umani avrà il potere di interpretare queste informazioni. C’è in atto una corsa alla conoscenza, e Google sta giocando un ruolo importante». La questione, continua la Montgolfier, potrebbe anche essere rivoltata: chi ha oggi i soldi per fare questo tipo di ricerche? Il settore pubblico forse no.

Rischi per la privacy?

La BBC, illustrando l’UK Personal Genome Project, un progetto che ha come scopo l’analisi e la condivisione pubblica e libera dei dati genetici di volontari in tutto il mondo, (parte del Global Network of Personal Genome Projects), parla dei rischi possibili del progetto.

Il primo è l’informazione per i volontari che decidono di aderire, che devono essere completamente coscienti delle conseguenze per la loro perdita di privacy.

Poi elenca i pericoli:

1/scoprire di avere malattie genetiche;

2/rovinare la propria vita personale: se il tuo partner scopre che avrai probabilmente l’Alzheimer o un’altra malattia grave la famiglia potrebbe essere a rischio;

3/pubblicità pensata in base al genoma o premi assicurativi diversi a seconda del grado di rischio;

4/clonazione

5/copie del DNA usate per implicare persone in crimini.
In questo caso stiamo parlando di un progetto “open”, dati che chiunque può consultare, quindi i rischi possono sembrare più elevati. Ma tutto è valutabile? Peter Mills, che si occupa di implicazioni etiche in Biologia e Medicina dice, sempre alla BBC: «La differenza con i dati genetici è che tu non stai semplicemente mettendo in gioco te stesso in qualcosa di cui non riesci a comprendere del tutto gli sviluppi, ma stai coinvolgendo anche i tuoi famigliari».
Un articolo apparso su Sciences nel gennaio del 2013 racconta come, usando i dati del 1000 Genomes Project una équipe di ricercatori è stata in grado, incrociando il cromosoma Y con età, residenza e albero genealogico, di risalire all’identità di diversi uomini che hanno partecipato, anonimamente, alla ricerca. Nella stesura dell’articolo, spiegano, si sono basati solo su dati pubblici, in libero accesso sul Web.

Oggetti e applicazioni “salute”
Oltre alla genetica le grandi compagnie Web si interessano alla medicina, alla salute e alle assicurazioni. E questo avviene attraverso l’investimento negli oggetti connessi e nelle applicazioni di gestione della salute o per lo sport. Il report 2014 di research2guidance.com, una società di consulenza che si occupa di “mobile health solution” dice che oggi le applicazioni “health” sono oltre 100mila, con un volume di affari che nel 2013 è stato di 2,4 miliardi di dollari e che si prospetta essere di 26 miliardi nel 2017.

Attualmente i maggiori utilizzatori di queste app sono i malati cronici e chi fa sport, in previsione dovrebbe toccare semplicemente tutti coloro che hanno uno smartphone. Già oggi, dice il report, queste applicazioni «raccolgono diverse centinaia di milioni di parametri vitali al mese».

Quali dati? Geolocalizzaione, frequenza cardiaca, dosaggio medicinali, tempistiche, idratazione… Tutti dati che ci vengono poi messi a disposizione in interfacce facilmente consultabili, ma che restano stoccati dal gestore.
Apple ha abbondantemente parlato dell’IWatch, che oltre ad essere connesso e permettere tutta una serie di funzionalità fino ad ora ad appannaggio del vostro smartphone, ha un cardiofrequenzimetro, Gps, strumenti che calcolano i movimenti del corpo e che prepara piani di allenamento e di monitoraggio attività. iOS8, l’ultimo sistema operativo di Apple, ha un nuova applicazione di gestione salute, iHealth, che ha lo scopo di raccogliere in un’unica interfaccia tutti questi dati (e quelli di altre app che eventualmente usate).
Stessa cosa Samsung, che sta lavorando sul sistema SAMI, che non è altro che una piattaforma di Big Data che raccoglie dati biometrici attraverso Simband, una sorta di super orologio in grado di raccogliere dati biometrici. Google non è da meno e ha lanciato qualche mese fa Android Fitness: una sorta di applicazione che di fatto funziona da contenitore dati per le applicazione di sport e salute che avete sul vostro smartphone. Che fare con questi dati? Altre applicazioni che abbiamo un database sulle abitudini sportive, alimentari e mediche; targeting commerciale per prodotti e servizi, in rete e nel territorio. E assicurazioni. L’ambito assicurativo è quello che preoccupa di più perché fa immaginare scenari in cui a un buon comportamento – monitorato – corrispondano polizze più basse, ad esempio. Fino ad arrivare a grandi fattori di rischio e a prezzi altissimi.

Lo scorso agosto Apple ha contattato due compagnie assicurative americane, riporta Bloomberg, per pensare a strumenti comuni per monitorare e personalizzare i contratti di assicurazione, con sistemi di premi per chi ha comportamenti “corretti”.

Intanto le assicurazioni investono in nel business degli oggetti connessi, soprattutto braccialetti: racconta Bloomberg (dati di Park Associates) che 2014 la previsione di vendita di questi “fitness-tracking devices” era di  22 milioni di dollari, un mercato che arriverà a 66 milioni nel 2018. Dal 2009, dice sempre Bloomberg, è raddoppiato la cifra che le assicurazioni e le imprese spendono per offrire ai loro impiegati e clienti oggetti che monitorano i loro comportamenti e premiano le buone pratiche. L’Affordable Care Act, (l’ObamaCare), permette alle compagnie di spendere fino al 30% all’anno in premi assicurativi che valorizzano i comportamenti salutisti.
Perché un cittadino dovrebbe accettare? Per risparmiare denaro, per esempio. E per essere meglio controllato e seguito dal punto di vista medico, per prevenire malattie. E, in fondo, stiamo già offrendo questi dati, completamente gratis, attraverso le diverse applicazioni che usiamo con il nostro smartphone.

 

(Foto di copertina tratta da Flickr, Jer Thorp,  Creative Commons)

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