Benessere
Vivere sotto la propria stella, ognuno nel suo tempo
E’ morto Thich Nhat Hanh, monaco buddista vietnamita. Aveva 95 anni.
Colpito nel 2014 da un ictus che lo aveva lasciato semiparalizzato e incapace di parlare, Thich Nhat Hanh nel 2018 aveva fatto ritorno nel tempio vietnamita di Tu Hieu, dove a 16 anni aveva iniziato il suo percorso di studi e di vita monastica.
E’ stato senza dubbio uno dei più straordinari profeti di pace del nostro tempo.
Raccontare la sua vita significa riflettere sull’inevitabile solitudine di ogni vero operatore di pace.
Nel 1964, durante la guerra del Vietnam, con Sister Chan Khong diede vita al movimento di resistenza nonviolenta dei “Piccoli Corpi di Pace” (SYSS): gruppi di laici e monaci che andavano nelle campagne per creare scuole, ospedali e per ricostruire i villaggi bombardati. Subiscono attacchi da entrambi i contendenti (vietcong e statunitensi), poiché li ritengono alleati del proprio nemico.
Viene così arrestato e torturato. Ma continua a mantenersi equidistante sia dal governo del Vietnam del Nord sia da quello del Vietnam del Sud. E viene attaccato sia nel suo paese sia negli Stati Uniti, dagli uni ritenuto troppo neutrale, dagli altri un collaborazionista.
Fino a quando viene espulso dal paese.
Nhat Hanh costretto all’esilio, dà vita alla Delegazione di Pace Buddhista, che partecipa alle trattative di pace di Parigi. Dopo la firma degli accordi, gli viene rifiutato il permesso di rientrare nel suo Paese da parte del governo comunista.
Si stabilisce in Francia, dove fonda nel 1982 il Plum Village, comunità di monaci e laici uomini e donne nei pressi di Bordeaux, nella quale insegna l’arte di vivere in “consapevolezza”.
Solo nel gennaio del 2005, dopo 39 anni di esilio, su invito ufficiale del governo vietnamita, può far ritorno per tre mesi in Vietnam.
Ritorna in Vietnam nel febbraio del 2007 per un tour di 10 settimane, durante il quale tiene discorsi davanti ad occidentali e vietnamiti, per formare alla pratica del Buddhismo nella sua originale rilettura. Ai suoi ritiri partecipano ogni anno migliaia di persone, provenienti da ogni parte del mondo.
Nel 1967 Martin Luther King scrive per lui una lettera al comitato di assegnazione del premio Nobel, perché il premio fosse assegnato a lui e così descrive la sua solitudine: «Thich Nhat Hanh oggi è di fatto un senzatetto e un apolide. Se dovesse tornare in Vietnam, cosa che desidera ardentemente, la sua vita sarebbe in grave pericolo. È vittima di un esilio particolarmente brutale, perché motivato dalla difesa della pace che egli vorrebbe offrire al suo stesso popolo».
Martin Luther King aveva ricevuto nel 1965 una lettera da Nhat Hanh, perché non rimanesse in silenzio in questo momento cruciale. Gli spiega che non si tratta soltanto di salvare il popolo vietnamita, ma la stessa anima del popolo americano.
Nel 1966 King lo invita in America. L’incontro e il dialogo tra i due convincono il pastore americano a prendere posizione. Fin ora era rimasto in silenzio sulla guerra in Vietnam perché pensava che avversarla avrebbe potuto minare la causa dei diritti civili degli afroamericani a cui si era dedicato.
Il 4 aprile 1967 King prende parte ad un dibattito nella Riverside Church di New York, il tempio del pacifismo di matrice cristiana e spiega con determinazione la sua posizione, chiarendo che l’intervento militare in Vietnam aveva interrotto il percorso di crescita di una nuova coscienza della “crisi razziale” americana e allargato il gap economico e sociale tra i bianchi e i neri: «…l’America non investirà mai i fondi e le energie necessarie alla riabilitazione dei suoi poveri per il tempo che le avventure come la guerra in Vietnam avrebbero continuato ad assorbire competenze e capitali come una diabolica macchina di distruzione…I giovani neri rovinati dalla nostra società, li prendiamo e li mandiamo a ottomila miglia da casa loro per difendere delle libertà che non avevano trovato né in Georgia né ad Harlem».
King firma la sua condanna alla solitudine.
A pronunciare il sermone delle sue esequie fu Benjamin Mays, pastore battista e presidente del Morehouse College dove King aveva studiato.
Dice con chiarezza: «Non fate errori. Il popolo americano è in parte responsabile della morte di Martin Luther King. L’assassino ha ascoltato un numero sufficiente di parole di condanna verso King e i neri da convincersi di godere di un sostegno pubblico. Sapeva che milioni di persone odiavano King».
Non c’è altro destino per i profeti della pace se non la solitudine e l’incomprensione.
«Se profeta è uno che non cerca le cause popolari ma piuttosto quelle che pensa siano giuste, Martin Luther King risponde a questa definizione. Se profeta è uno che non cerca le cause popolari ma piuttosto quelle che pensa siano giuste, Martin Luther ha raggiunto quest’obiettivo. No! Non era in anticipo sui tempi. Ogni uomo è sotto la sua stella , ognuno nel suo tempo. Ogni uomo deve rispondere alla chiamata di Dio nella sua vita e non nel tempo di qualcun altro» (Benjamin Mays).
Anche Thich Nhat Hanh ha vissuto fino in fondo sotto la sua stella.
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