Benessere
Varese, la capitale leghista che ha paura di diventare Covid-land
La prima ondata attraversata in maniera relativamente tranquilla. La seconda ondata che ha la forma dello tsunami. La dorsale centrale lombarda sta facendo proprio questa esperienza. Se a primavera erano stati l’est e il sud est della regione a subire i colpi più duri dal virus, adesso sono Milano, Monza e la Brianza, e Varese, ad avere paura. La provincia più a Nord, in particolare, ha registrato tassi di crescita del virus importanti, e si trova schiacciata – non solo psicologicamente – tra la densità urbana del nord ovest milanese a sud, e la Svizzera a Nord. Entrambi territori molto colpiti. Varese poi, politicamente parlando, non è una terra qualsiasi. Tra le province più ricche del mondo, patria della Lega e di Attilio Fontana, che dalla città di cui è stato sindaco ha spiccato il volo verso palazzo Pirelli. Per trovarsi presidente in uno dei momenti più difficili e bui della storia della “Padania”. La questione sanitaria e quella politica, quindi, diventano una sola cosa.
«In questi anni abbiamo assistito alla richiesta di maggiore autonomia da parte di Regione Lombardia, facendo un referendum inutile che ha buttato via una valanga di milioni. Adesso che Fontana e la Lega dovrebbero esercitare i loro poteri per intervenire in maniera mirata sui territori più colpiti dall’epidemia, aspettano che sia il Governo centrale a prendersi la responsabilità. E noi lo faremo. Perché non abbiamo dubbi che prima del consenso viene la tutela della salute delle persone», afferma il senatore del Pd Alessandro Alfieri, originario di Varese e a lungo consigliere regionale d’opposizione. «Bisogna essere capaci di meritarsela sempre l’autonomia: è una prerogativa che non puoi permetterti di rivendicare quando va tutto bene e poi quando iniziano le difficoltà invochi la copertura del governo nazionale», conclude.
«La pochezza delle dichiarazioni dei colleghi del Pd fa dispiacere in una situazione come quella che stiamo affrontando. È dall’inizio della pandemia che la regione è un passo avanti al governo, da quando il presidente Fontana ha messo per primo la mascherina ed è stato criticato da tutti, fino all’ultima ordinanza che la regione ha assunto dieci giorni fa. Un esempio? Tutti sono corsi a criticare la scelta della didattica a distanza alle superiori e adesso invece il nuovo Dpcm la prevede», risponde Raffaele Cattaneo, assessore all’ambiente di Regione Lombardia, anche lui varesotto e da decenni in prima linea in regione. «La regione è regolarmente un passo avanti a un governo trainato dal Pd e dal movimento Cinque Stelle che non è altezza della situazione e sta cercando di scaricare il cerino tra le dita di altri, cioè quelle delle regioni».
Secondo Cattaneo il governo con qualche giorno o settimana di ritardo tende a riprodurre i provvedimenti che le regioni assumono in anticipo. Ma «chi ha responsabilità di governo ha il dovere di anticipare quello che accadrà e anticipare lo scenario di domani». Per Alfieri «il punto di fondo politico è uno: il governo si assume le sue responsabilità e definisce alcune misure simili a livello nazionale, però il contagio sta mordendo in maniera differente a livello territoriale, quindi ci sono dei territori che hanno bisogno di misure maggiori, e lì è giusto che siano le regioni a intervenire».
Il nostro “viaggio” tra la provincia che ha visto nascere la Lega, e che oggi è messa a dura prova dal Covid, ed era stata quasi risparmiata in primavera, parte da due politici che il varesotto lo conoscono bene, perchè prima di tutto lo abitano e qui è partita la loro carriera politica.
La corsa al Covid infatti non rallenta, in tutta la Lombardia, dove la percentuale di positivi sul totale dei tamponi fatti tocca quota 21,7 percento (a livello nazionale è del 16,3 percento). Il nuovo Dpcm con misure più restrittive (coprifuoco alle 22, chiusura dei centri commerciali nel fine settimana, stretta nella circolazione fra le Regioni, scuole in didattica a distanza al 100% alle superiori, musei chiusi, capienza dei trasporti al 50%) forse aiuterà. Dal 5 novembre al 3 dicembre l’Italia sarà dunque divisa in tre aree: zone rosse (ad alto rischio), arancioni (intermedio) e gialle (più sicure).
«Vengono messi dei riferimenti», spiega Alfieri. «Regione Lombardia rinuncia di fatto a esercitare la sua autonomia. Sono definiti degli indici di Rt oltre il quale si chiede alle regioni, dove ci sono territori con Rt maggiore di quello scritto nel Dpcm, di intervenire con delle misure in più. La Lombardia adotterà quelle misure avendo perso già tempo perché la provincia di Varese ha abbondantemente superato Rt con 2 da diversi giorni».
«Qualunque decisione assumiamo, prima di produrre i suoi effetti, ha un ritardo di dieci, quindici giorni. Noi dobbiamo decidere sullo scenario e la gravità che avremo tra quindici giorni. Anche se è impopolare. Chi governa non ha il compito di lisciare il pelo all’opinione pubblica», commenta Cattaneo. «Nei nostri territori le relazioni economiche e lavorative non finiscono al confine con la provincia. I provvedimenti localizzati hanno senso se c’è un focolaio circoscritto come Codogno ma noi abbiamo interi territori che sono rossi, in cui in ogni comune c’è una diffusione del contagio spalmata. A maggior ragione a Varese dove la situazione è estremamente più complicata rispetto alla prima ondata».
L’ultimo bollettino regionale parla di 6.804 contagiati. 475 malati occupano le terapie intensive ma 4.740 malati sono ricoverati nei reparti degli ospedali. La soglia dei 200 mila cittadini colpiti dalla malattia dall’inizio dell’emergenza è stata ampiamente superata.
Varese è la nuova Bergamo?
La provincia lombarda che preoccupa più delle altre è proprio quella di Varese: qualcuno l’ha definita la Bergamo della seconda ondata e guardando la curva epidemica il dubbio che sia proprio così viene.
Qui il numero dei positivi al 3 novembre è di 1192 (17.344 in totale, 18877 in provincia di Bergamo, 22221 in provincia di Brescia). Como ha registrato +459 positivi. Poi c’è Monza e Brianza con 838. Milano le batte, con 2829 positivi (999 a Milano città) ma con una densità di popolazione nettamente maggiore. Qui i malati dall’inizio dell’epidemia sono stati 78.326. Se guardiamo ai comuni, il basso varesotto è quello in cui il virus sembra girare di più. Busto Arsizio, Varese, Gallarate e Saronno sono i comuni in cui il numero dei positivi è più alto. Su circa 81027 abitanti, a Varese i positivi sono 1460, eppure l’alto varesotto vanta comuni più piccoli e quindi in proporzione più colpiti dal virus. Cocquio Trevisago con 4770 abitanti ha registrato finora 176 positivi. Cunardo, con 2967 abitanti ne ha registrati 37, molti di più che durante la prima ondata.
In questo periodo in provincia di Varese il numero di tamponi effettuati è stato il triplo di quelli fatti durante la prima ondata. Ma questo non spiega l’impennata dei contagi. Perché se in primavera l’emergenza era il contagio nelle RSA, il virus stavolta è diffuso in maniera omogenea.
«La forte integrazione della provincia di Varese con il milanese può pesare sui contagi e lo dimostra il maggior numero di positivi nel sud della provincia, che è più densamente abitata. Ci sono però alcune punte in qualche comune dell’alto varesotto e lì il tema può essere legato al rapporto con la Svizzera, ci sono molti frontalieri», afferma il senatore Alessandro Alfieri. «L’altro aspetto potrebbe essere legato al fatto che qui l’attenzione al virus è bassa rispetto a quei territori che hanno pagato un prezzo più alto in primavera. Però non abbiamo ancora abbastanza dati per fare un’analisi compiuta».
Capire le ragioni che hanno spinto all’impennata della curva epidemiologica è complicato ma a confermarci che i motivi possono essere tanti è la professoressa Licia Iacoviello, docente di salute pubblica all’Università dell’Insubria e direttrice del Dipartimento di Epidemiologia e Prevenzione dell’IRCCS Neuromed di Pozzilli in Molise. «La popolazione potrebbe essere più suscettibile perché ha sviluppato meno immuni e poi c’è la vicinanza con le frontiere, che potrebbe influire. L’aumento dei contagi però potrebbe anche essere dovuto a quelle cause che in tutta Italia, Europa, nell’emisfero che ha visto l’estate, stanno portando alla circolazione del virus. Ci siamo dimenticati che il Covid era tra di noi e abbiamo fatto finta che fosse sparito, anche spinti da una serie di voci autorevoli che hanno dettato il libera tutti. Lo dico con rammarico ma penso che un pò più di attenzione, realismo e accortezza, senza fare terrorismo, avrebbero aiutato». Secondo la professoressa Iacoviello, non avendo toccato con mano la drammaticità della crisi, alcuni territori ma anche alcune regioni del sud hanno pensato di averla fatta franca. «Questo forse giustifica perché magari nelle province più colpite come Bergamo e Brescia oggi c’è minor contagio, invece nelle province meno colpite come Varese e Como il contagio è alto. Non menziono Milano dove la situazione era brutta nella prima fase come lo è oggi, perché è una città grande, di passaggio, dove la variabili da controllare sono molte di più».
Anche l’assessore Raffaele Cattaneo conferma che «i dati ci dicono che i territori più colpiti nella prima ondata, almeno per ora, lo sono meno in questa seconda fase. Questo è probabilmente legato da un lato a fenomeni di immunità di gregge più diffusi, dall’altro a una differenza sostanziale: la prima ondata si è concentrata in territori importanti ma relativamente meno densamente popolati e più isolati. La seconda fase si è innescata invece in queste aree che hanno una circolazione delle persone più intensa».
La pressione sugli ospedali
La catastrofe non è tanto (o non solo) il Covid quanto gli effetti collaterali che causa la pandemia. L’ospedale non ricovera solo pazienti Covid e deve avere a disposizione posti letto e di terapia intensiva anche per i pazienti che non hanno il Covid.
In provincia di Varese la situazione è preoccupante. «I posti letto per i ricoveri ordinari all’ospedale di Circolo sono esauriti. Hanno aperto Angera ma andando avanti con questo tasso di crescita non basterà. Si sta provando a lavorare sull’apertura dell’ospedale di Cuasso, insieme Governo e Regione», racconta Alfieri. «C’è anche una questione indiretta. Ci sono persone che non vanno più in ospedale perchè hanno paura, o perché siamo costretti a bloccare i ricoveri programmati e così si rischia di non curare tutte quelle persone che hanno bisogno per altre patologie».
Oggi bisogna rafforzare la capacità delle strutture sanitarie del territorio per far fronte a un’ondata che non hanno conosciuto nella prima fase e che tutti temono possa crescere ancora. «Varese è sotto pressione e voglio esprimere un apprezzamento e la mia riconoscenza agli operatori sanitari che si stanno facendo in quattro in questo momento», afferma Cattaneo. «L’ospedale di Circolo si è strutturato per accogliere i malati Covid ma giustamente la direzione dell’ASTT dei Sette Laghi ha pensato di destinare questi pazienti anche agli altri ospedali del territorio, come Angera, Luino. Il problema però non è lo spazio, come nel caso di Cuasso, ma la mancanza di personale. Stiamo cercando di attivare gli strumenti per mettere al lavoro tutti, dalla cooperative fino all’esercito».
Ma cos’è che non ha funzionato o cosa non sta funzionando nella gestione dell’epidemia nel territorio?
Secondo la professoressa Iacoviello che si occupa di salute pubblica, anche se molto è stato fatto, «la prevenzione è sempre l’arma migliore. A livello di possibilità di interventi lo Stato per questa finta sicurezza di aver in qualche modo scampato la prima ondata non ha preso misure per contenere la seconda ondata, che sapevamo tutti sarebbe arrivata. Forse ci si poteva preparare di più».
Sul tema del tracciamento e dei tamponi l’epidemiologa ci spiega che si sarebbe potuta creare un’organizzazione che reggesse l’urto di un’aumentata necessità di tamponi di dieci, venti volte. Inoltre, forse, «si poteva gestire meglio l’immissione dei tamponi rapidi, facendo uno sforzo per validare più velocemente quei test (tamponi e test salivari) che potevano essere più efficaci in termini di riduzione dei falsi positivi e falsi negativi e quindi renderli disponibili prima». Invece, soltanto oggi stiamo cominciando a organizzarci per usarli.
Peraltro, il tracciamento ha funzionato finchè poteva funzionare. «Abbiamo permesso alla crescita di diventare esponenziale. Il tracciamento funziona in una situazione di calma apparente, dove c’è l’infezione ma non è così esplosiva. Se al tracciamento accompagniamo un mantenimento puntuale di tutte le misure di contenimento (mascherine, distanziamento, lavaggio delle mani) e una volta tracciato facciamo bene l’isolamento dei contatti allora il sistema tiene. Quando il sistema diventa da focolai multipli, dove non è più rintracciabile chi inizia la catena, allora non riusciamo più a seguire i positivi perché sono troppi, perché siamo entrati in una fase in cui le potenzialità del tracciamento sono ridotte».
Anche la medicina di territorio in Lombardia, regione tradizionalmente ospedalocentrica, ha qualche problema. «Sono stati fatti grandi investimenti negli ospedali ma il territorio è stato trascurato. Lo vedi dal mancato coordinamento dell’Ats con i medici, c’è poco dialogo, non funziona bene», spiega Alfieri che non dimentica anche i ritardi nella vaccinazione antinfluenzale nella nostra regione. «La Lombardia della ormai passata eccellenza sta facendo una figuraccia rispetto alle altre regioni. Soprattutto gli anziani vanno vaccinati per tempo. Al posto che porsi il problema delle battute alla Toti, quasi fossero gli anziani il problema e non invece persone da essere tutelate, si concentrino di più nel recuperare i vaccini e così proteggerli».
Le misure restrittive ormai sono inevitabili
«Se vogliamo mantenere uno stato di libertà dobbiamo mettere in pratica quello è necessario per tutelare la salute di tutti», afferma la professoressa Iacoviello.
Ma la crisi economica si fa sentire. Pensiamo ai ristoratori, ai baristi, a tutti coloro che si occupano dei servizi alla persona e a molti altri lavoratori. «Anticipare le misure più drastiche come il lockdown generale contrasterebbe con la situazione che rende diversa questa seconda ondata dalla prima ed è la crisi sociale. Oggi la popolazione è meno disponibile a sopportare provvedimenti di chiusura totale, perché c’è più difficoltà psicologica, economica, sociale. Il compito di chi governa e della politica è di trovare un equilibrio (difficilissimo) tra la tutela della saluta e la tutela della situazione economica e sociale che non deve diventare esplosiva», afferma l’assessore Cattaneo. Certo è che «dobbiamo riuscire a piegare la curva e a farla scendere. I ricoverati stanno aumentando perché tra il contagio e l’aggravamento dei sintomi ci vogliono circa dieci giorni. Se i positivi cresceranno meno intensamente avremo comunque per un certo periodo una curva dei ricoverati che continuerà a crescere. Siamo in una situazione in cui si deve trovare un equilibrio difficile ma non si può pensare di poter difendere allo stesso modo la salute dei cittadini e l’andamento ordinario normale dell’economia, della vita quotidiana. Se i numeri proseguiranno con le previsioni che abbiamo detto prima occorreranno ulteriori interventi che dovremo costruire in modo saggio. Vedremo quali effetti produrrà il nuovo Dpcm e poi valuteremo a livello regionale o all’interno della regione se assumere ulteriori provvedimenti ancora più restrittivi», conclude l’assessore.
Il ruolo dell’informazione e la responsabilità sociale
«Non dobbiamo pensare che se abbiamo un problema di sanità il problema allora è della sanità. Il problema è di ognuno di noi e ogni cittadino può aiutare», precisa la professoressa Iacoviello. Le misure di protezione, l’uso della mascherina, il distanziamento sociale, il lavaggio delle mani, sono fondamentali, sono presidi che non vanno trattati con superficialità, perchè ci permettono di svolgere le attività necessarie in sicurezza. L’ultimo studio è stato pubblicato la settimana scorsa, su 137 paesi, e dimostra che l’utilizzo delle misure di prevenzione è efficace in tutti i casi esaminati e il rilasciamento da queste misure è altrettanto rapido nel ripristinare il rischio».
Un’informazione consapevole che cerchi di educare il cittadino ad una coscienza sociale ci aiuterà tantissimo, forse più delle imposizioni. Dobbiamo fare educare sanitaria. «Dare notizie come “il virus non esiste più, si è abbassata la sua virulenza”, è terrorismo. Non c’è nessuno studio che abbia evidenziato queste cose». Se non vogliamo il lockdown totale, che sarà inevitabile se entriamo nella fase 4 di rischio (e ci siamo vicini), «possiamo fare un lockdown di coscienza», evitando di uscire se non quando è davvero necessario, di vedere persone, di creare assembramenti, e di trasmettere anche tutte quelle infezioni stagionali che somigliano al Covid, come l’influenza, per cui è importante vaccinarsi (appena sarà possibile).
La soluzione è il vaccino è dobbiamo attenderlo con pazienza
«Il vaccino arriverà ma non nel prossimo mese come qualcuno dice perché devono ancora essere pubblicati gli studi di fase 3 che ci aspettiamo possano essere pubblicati entro l’inizio dell’anno prossimo. Inizieremo la campagna vaccinale si spera nei tempi più brevi possibili. La disponibilità del vaccino ci permetterà di accelerare l’insorgenza dell’immunità di gregge. Sappiamo che il vaccino c’è, che si è dimostrato sicuro e ha dimostrato di inibire il virus e che gli anticorpi sono duraturi per un certo periodo di tempo», conclude la professoressa Iacoviello. «Se noi riusciamo a dirci, sapendo che la pandemia avrà una fine, di essere rispettosi delle norme, delle regole che vengono date, sappiamo che ne usciremo. Dobbiamo arrivare alla primavera e lì cominceremo a respirare».
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