Benessere

sfinire la speranza

20 Marzo 2020

“Domenica è mancato mio zio, Giovedì è stato ricoverato mio marito per una grave polmonite e oggi un’ambulanza ha portato via mio padre in condizioni disperate.”

E’ la storia assurda di una persona a me vicina, ma in provincia di Bergamo questa storia oggi potrebbe non essere così eccezionale, perché qui l’impensabile sta scivolando nel quotidiano.

Nessun sistema di pensiero potrebbe reggere nell’immediato questa tragedia, sarebbe come dover scrivere un libro in dieci minuti; e i tempi per dare a quel che accade una dimensione sopportabile non ci sono: non c’è tempo per realizzare.

Il picco del dolore si tocca quando in quelli che restano, l’istinto di sopravvivenza lotta col desiderio di morire.

Le province bergamasca e bresciana stanno vedendosi cancellare una generazione e mettendo a durissima prova quella successiva.

Nell’immagine della colonna di mezzi militari che anonimamente portano lontano le bare, quasi si trattasse di uno smaltimento, si condensa la violenza di questa tragedia.

Non potersi separare dignitosamente dai propri cari separa anche da se stessi, dalle proprie radici.

Forse è anche questo lo spazio morale che dovrebbe abitare la domiciliazione forzata a cui siamo chiamati.

E, mentre ci si chiede continuamente quando e come tutto questo finirà, vale la pena riflettere su come anche questo che stiamo vivendo sia già un dopo.

Le scuole che non riaprono o gli eventi sportivi o artistici che vengono progressivamente cancellati sono già il dopo. Sono cioè un tempo che a fisarmonica comprime e rilascia la nostra libertà.

 

 

 

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