Benessere

Scuola: “il rientro in sicurezza”

1 Settembre 2020

Chi  non lavora nella scuola non può immaginare la confusione che in questi giorni la sta affliggendo. Non è necessario ripetere ciò che da mesi è sotto gli occhi di tutti. L’attenzione è stata volutamente deviata sulle pseudosoluzioni come il rinnovo degli arredi scolastici e l’acquisto di banchi monoposto o sedie con le rotelle, quando, a dire il vero, la difficoltà di rispettare il distanziamento e di far usare correttamente la mascherina agli studenti, restano problemi insormontabili. Stiamo parlando di adolescenti, persone vive, in crescita, con ovvie esigenze di costruzione della consapevolezza della propria corporeità anche in rapporto allo spazio. I ragazzi in classe si muovono: il metro di distanza tra le “rime buccali” – ammesso che sia sufficiente per evitare i contagi – non potrà essere mantenuto costantemente. Risulta, poi, impensabile e ingenuo – se non ipocrita – suggerire l’uso delle mascherine a scuola: chi riesce a tenerle per 5/6 ore di seguito, con temperature ancora alte a settembre e ottobre? Chi assicura, inoltre, che i ragazzi misureranno la febbre a casa, come  invece il MI prescrive? Spesso sono soli, figli di genitori pendolari che escono prima di loro per raggiungere il posto di lavoro. Davvero la scuola può fare affidamento sul senso di responsabilità di minorenni che spesso saltano la colazione perché sono in ritardo, dimenticano libri a a casa per la fretta, altrimenti perdono l’autobus: molti di loro, quindi, diranno di aver misurato la temperatura anche se non è vero, non per mancanza di volontà, ma perché non hanno fatto in tempo. La verità è questa: noi docenti dovremo trascorrere ore a esaminare il nostro corpo, ogni sua minima manifestazione, per essere sicuri di non avere sospette riniti, dovremo stare attenti ad ogni starnuto dei nostri alunni in classe, osservare il loro sguardo per capire dagli occhi stanchi se hanno la febbre, la congiuntivite o un attacco di noia, ci toccherà lavorare tra un loro mal di pancia e un colpo di tosse, intimare l’uso della mascherina e sanzionare chi lo rifiuta, evitare che gli studenti si scambino penne e libri toccati senza la preventiva disinfezione delle mani. E nei bagni? Tutto il controllo e tutte le attenzioni sfumano in un attimo. Questo non è rientro in sicurezza. Al MI lo sanno perfettamente.

Noi docenti non avremo più tempo per insegnare, il lavoro in classe sarà un lavoro di vigilanza igienico-sanitaria. Il ritorno a scuola in presenza, deliberato per assicurare la tenuta economica del Paese, sarà un rientro caotico e, questa volta sì, il diritto allo studio dei discenti verrà leso, e avrà conseguenze molto più gravi dei danni che sono stati attribuiti alla DAD.

Si sa, il famoso rischio zero è un’illusione, con il coronavirus dovremo imparare a convivere: è quello che ci ripetono instancabilmente. Però chiediamo indicazioni coerenti e praticabili, vorremmo essere ascoltati, noi che a scuola passiamo buona parte dei nostri giorni, noi che spesso veniamo additati come lavoratori “fragili”, come se lo stato di salute non perfettamente efficiente fosse un a colpa, un peso sociale, un male cui rimediare perché fa inceppare una scuola curvata totalmente agli interessi del mercato, quella in cui gli studenti sono capitale umano, i docenti risorse e i rapporti con le famiglie hanno ormai assunto i tratti del contratto educativo: “contratto”!

Perché si possa parlare di scuola non basta affatto garantire che i corpi frequentino fisicamente gli istituti, non è sufficiente nemmeno la retorica sulla relazione empatica: quale relazione potrà instaurarsi tra docenti stressati da compiti di sorveglianza sanitaria e alunni ossessionati da una scuola sanzionatoria che a suon di regolamenti di istituto avrà come obiettivo primario l’osservanza dei protocolli e non più la preparazione degli studenti? Non bastano neanche le norme – le linee guida del CTS, le note ministeriali – troppo piene di prescrizioni al punto da generare un sovraccarico informativo che destabilizzerà la macchina organizzativa della scuola intera e soprattutto scritte in un burocratese ambiguo e ipocrita, fatto di un’ondivaga alternanza di regole e deroghe.

Consideriamo una delle norme per il trasporto pubblico: “è consentita la capienza massima del mezzo di trasporto scolastico dedicato nel caso in cui la permanenza degli alunni nel mezzo nella predetta modalità di riempimento non sia superiore ai 15 minuti. Pertanto dovrà essere quotidianamente programmato l’itinerario del percorso casa-scuola- casa, in relazione agli alunni iscritti al servizio di trasporto scolastico dedicato, avendo cura che lo stesso itinerario consenta la massima capacità di riempimento del mezzo per un tempo massimo di 15 minuti”.

Tale norma è irrealistica nel merito: che cosa accade se per una qualsiasi imponderabile evenienza la permanenza degli studenti nell’autobus rischia di superare i 15 minuti? I minori scendono e restano da soli per strada, se ne vanno in giro autonomamente? Come si fa a programmare quotidianamente l’itinerario del percorso? Ci possono essere incidenti, alluvioni, rotture improvvise del manto stradale a seguito, per esempio, di piogge torrenziali che rendono impossibile tale quotidiana programmazione. E, poi, che cosa succede se l’autobus si ferma per guasti al motore? Non è catastrofismo: è vita. La vita non è sempre programmabile e forse,per altri versi, anche per questo ha il suo fascino. Qualcuno diceva che il mondo danza sui piedi del caos. Ma al MI non se ne rendono conto.

Consideriamo poi lo stile in cui la norma in questione è redatta. Chi mai parla in questo modo? La povertà del lessico è tale che l’aggettivo “massimo/a” è ripetuto tre volte in sei righe. La frase “dovrà essere quotidianamente programmato l’itinerario del percorso” è ambiguamente posta in forma passiva proprio per non chiarire chi dovrà programmare tale percorso e su chi ricadranno le eventuali responsabilità in caso di imprecisioni (sul dirigente scolastico, sul dirigente dei trasporti pubblici cittadini?):  uno stile pensato per favorire l’insorgere di contenziosi. E, ancora: se il distanziamento è tra le regole fondamentali per evitare il contagio, perché sui mezzi pubblici non vale? Oppure la velocità del contagio stranamente ha un tempo calcolato? E come si è arrivati a far coincidere tale tempistica di diffusione del virus esattamente con i 15 minuti citati nel testo? Quali sono i criteri della ricerca? Di quali fonti si è servito il MI? E se tali fonti scientifiche esistono, per quale motivo nel documento non sono citate?  Non è pedanteria, è solo il diritto di esercitare la propria legittima aspirazione a conoscere. Siamo cittadini, non sudditi. Per ora.

A mio parere non si dovrebbe scrivere in modo oscuro, perché uno scritto ha tanto più valore, e tanta più speranza di diffusione e di perennità, quanto meglio viene compreso e quanto meno si presta ad interpretazioni equivoche.

È evidente che una scrittura perfettamente lucida presuppone uno scrivente totalmente consapevole.(P. Levi, Dello scrivere oscuro)

Cfr.: https://scholescuolaecultura.blogspot.com/2020/09/non-lavora-nella-scuola-non-puo.html

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