Benessere

L’orto del vicino e la cultura della penitenza ai tempi del Coronavirus

24 Marzo 2020

In queste ultime ore, complice l’ulteriore decreto governativo che impone nuove restrizioni di carattere produttivo e commerciale per il contenimento della pandemia da Covid 19, si è di nuovo sollevato un interessante dibattito circa le cose che sono ritenute o meno essenziali dalla popolazione italiana. Almeno sul web. Prima fra tutte, fra le segnalazioni degne di nota, quella che ha riguardato il “caso” negozi di cosmesi, ormai vecchia di una settimana, e delle lavanderie. A che serve tenere aperti questi negozi? Sono forse beni e servizi di prima necessità? Un chiarimento generale può essere d’aiuto in questo senso. In Italia quando apri una tua attività devi aprire partita iva. Che sia per fare consulenze informatiche, riparare lavandini o vendere taralli è la stessa cosa. Quando apri partita iva scegli di “appartenere” a un determinata categoria e ti viene assegnato un codice, il codice Ateco. Il codice serve per identificare la tua tipologia di servizio, per definire il tuo imponibile a fini fiscali, per ogni altra relazione con stato ed enti parastatali (contribuzione, sgravi fiscali, etc). Scegliere il codice giusto è fondamentale perché implica anche la possibilità di avere o meno sgravi per l’acquisto di materiali e beni per la propria professione e altre amenità. Nel commercio il codice Ateco è quello che definisce, ad esempio, la differenza fra un negozio che fa solo vendita di frutta e verdura fresca e uno che fa anche vendita di prodotti alcolici insieme a frutta, verdura, pasta… Questo codice è l’unica possibilità univoca per identificare a norma di legge un’attività e quindi poter dare licenza di aprire, chiedere di chiudere o sospendere l’attività. Il codice Ateco delle profumerie incriminate è e resta lo stesso dei negozi di sapone e prodotti per l’igiene personale (gel disinfettante compreso). Lo Stato non può dire quindi “tu che mi sembra ti occupi più che altro di fondotinta chiudi e invece tu che hai la maschera per capelli ma anche l’amuchina e il sapone per le mani resti aperto“. Non può applicare un criterio discrezionale, perché si tratta dello Stato e servono norme univoche.
Stesso discorso per la lavanderia che ha un codice comune per quelle che usiamo per servizio privato e quelle che servono gli ospedali per il lavaggio e sanificare delle lenzuola dei reparti e dei camici.
A distanza di pochi giorni è scattata la polemica legata all’impossibilità di acquistare, all’interno dei supermercati, prodotti di cancelleria, non considerati beni essenziali, indumenti – compreso l’intimo – e utensili. Anche in questo caso è la norma il riferimento: non sono prodotti inclusi, al di fuori della grande distribuzione, fra quelli il cui commercio è garantito. Ora si potrebbe aprire una lunga discussione sul senso di bloccare un acquisto per un soggetto che è già all’interno del supermercato per procurarsi altri beni essenziali e che, quindi, ha già attivato il suo fattore di rischio contagio, o sul significato che vogliamo attribuire al termine essenziale quando abbiamo docenti che fanno lezione e famiglie che non possono teoricamente reperire i materiali, ma non è il tema che voglio ora affrontare. Tornando alle ultime restrizioni la levata di scudi quotidiana è stata, questa volta, nei confronti delle tabaccherie.

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Le sigarette sono dunque un bene essenziale? Molte persone che sono, sono state o hanno contatti con fumatori potrebbero rispondere affermativamente, perché privare una persona di un prodotto dal quale è dipendente in un contesto di “cattività imposta” non è certamente una scelta vincente dal punto di vista della tenuta sociale. Ancora una volta però non è questo il tema, ma la classificazione del servizio. Le tabaccherie infatti sono rivenditori autorizzati di valori bollati, gli stessi che occorrono per lo svolgimento di molte pratiche tutt’ora eseguibili e per l’emissione di fattura, nonché la ricarica dei telefoni (che diversamente in molti ricaricherebbero al bancomat, sempre uscendo di casa, data la scarsa propensione alla digitalizzazione dei servizi nel nostro Paese). Quindi di nuovo, come per le edicole, funzione e codice Ateco.

Ciò che rende la discussione interessante però è l’atteggiamento medio della popolazione web in risposta al vedere garantito qualcosa che, da un punto di vista esclusivamente personale, non risulta essenziale. Non fumo, penso che tutti i fumatori dovrebbero smettere perché il fumo è un vizio e quindi ritengo che le tabaccherie debbano essere chiuse. Stesso discorso per chi, un passo prima nel dibattito, sosteneva che la tinta per i capelli al supermercato non andasse venduta perché superflua. Ancora una volta un punto di vista personale, che – per fortuna – lo Stato non può e non deve considerare nelle sue decisioni e che, fra l’altro, nulla cambia dal punto di vista della lotta al contagio.

Le norme, pensate per limitare il contagio tengono conto dell’impatto che ogni singola apertura può avere sulle possibilità di trasmissione fra individui, non altro. E il comportamento corretto del cittadino è legato al rispetto della norma, in modo puntuale, non al suo superamento “in bontà” da un punto di vista morale. Non è una gara.

Se una persona, recandosi come norma prevede, a fare la spesa nel supermercato di prossimità, riducendo al minimo le spese settimanali, come da invito delle autorità, acquista unicamente beni all’apparenza futili perché ha deciso di nutrirsi di pop corn e coca cola per il resto della quarantena, questo non deve interessare l’opinione pubblica. Lo stesso si può dire di chi, uscito dal supermercato, si ferma ad acquistare – spesso per un tempo addirittura inferiore a quello trascorso in una farmacia o dal panettiere – un pacchetto di sigarette. Ma cosa ci porta ad essere così attenti, in questo periodo, a ciò che accade nel carrello altrui?

Si tratta, credo, di una tendenza al confronto costante, secondo il quale “se io sto facendo un sacrificio lo devi fare anche tu” e non in termini di senso di questo sacrificio, ma a prescindere dal suo oggetto. Se io devo sacrificare la mia ora di jogging tu devi sacrificare i pastelli dei tuoi figli, se io sacrifico l’aperitivo in compagnia tu devi sacrificare il prosciutto tagliato fresco al banco gastronomia. Non importa che i primi sacrifici siano necessari (e dovuti per legge) perché, diversamente, creerebbero occasioni per ulteriori contagi, mentre nel secondo caso si tratterebbe solo di autoflagellazione: l’importante è andare in pari. La tendenza in effetti si riscontra anche nei contenuti presenti in rete. Da qualche tempo sono apparsi, a fianco di fotografie che – con tutta evidenza – ricordano momenti pre pandemia, hashtag come #memories o #ricordi. Per quale ragione? Dalla risposta ad alcune interviste informali è emerso un certo timore che quel tipo di fotografia avrebbe potuto sollevare voci d’indignazione qualora si fosse pensato che documentassero qualcosa di presente. Una giustificazione non richiesta, ma sentita come necessaria.

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Questo atteggiamento giudicante non si esaurirà con il finire delle restrizioni, ma tornerà a concentrare la sua attenzione sulle questioni che, fino all’altro giorno, occupavano il dibattito pubblico: lo smartphone in mano ai profughi sbarcati sulle nostre coste, la prossima categoria sociale considerata come privilegiata e quindi attaccabile. Il tutto senza mai fermarsi, ovviamente, a considerare quali possano essere in realtà le origini vere della nostra frustrazione, le cause prime che la generano. Queste settimane tuttavia potrebbero rappresentare invece un’importante occasione per uscire da questa dinamica improduttiva per noi e per la società, rendendosi conto che nulla cambia, al fine del risultato, se durante questa quarantena siamo più o meno felici del nostro vicino che ha avuto la buona idea di acquistare un barbecue prima che ne impedissero la commercializzazione o della nostra dirimpettaia che trascorre giornate più serene delle nostre perché ha sviluppato, negli anni, passioni e interessi che possono essere praticati anche in casa. Il sacrificio ha infatti senso solo con uno scopo, che in questo caso è la riduzione del contagio, diversamente si tratta di penitenza (nulla cambia infatti al virus se nel carrello aggiungiamo una stecca di cioccolata o una bottiglia di vino buono) e la penitenza serve a nulla da un punto di vista sociale. Se poi si tratta di un fioretto quaresimale le cose cambiano, ma – anche in questo caso – al virus non importa. Impegnare invece il tempo mettendo a fuoco cosa ci piace o non ci piace della nostra vita, come possiamo migliorarla – con il nostro impegno, non con un inutile costante confronto con gli altri – valutare quali elementi del vivere sociale (dal lavoro al tempo libero, dalle relazioni interpersonali all’associazionismo) ci piacciono e quali invece pensiamo sarebbe meglio cambiare con un lavoro di squadra, sarebbe un’operazione più produttiva. E forse attenuerebbe anche il nostro senso d’impotente frustrazione.

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