Benessere

Lorenzin, Trainspotting e i veri disastri della comunicazione

25 Settembre 2016

Il suicidio mediatico compiuto da Beatrice Lorenzin non vi tragga in inganno: c’è persino chi ha fatto molto peggio dell’attuale ministra della Salute.

Difficile da credere? Beh, lo capisco, ma, paradossalmente, è stata proprio la palese assurdità della campagna sul “Fertility Day” ad impedirle di commettere troppi danni, depotenziandola fin dall’esordio per evidente mancanza dei presupposti oggettivi di credibilità.

Al contrario di quanto molti hanno detto, non si è trattato affatto di un errore di comunicazione, ma di un tremendo harakiri politico: è infatti l’idea stessa di uno Stato etico, che valuta in maniera occhiuta e bacchettona i comportamenti privati ad essere totalmente inaccettabile. I manifesti, comunque orribili, vengono molto dopo e di questo dovrebbero tenere conto sia Lorenzin che Renzi, i quali non se la possono cavare dando la colpa a chi ha curato la campagna.

Il compito del Governo è quello di mettere i cittadini nelle condizioni di scegliere, non di giudicare le loro scelte. In questo caso, oltre ad essere insoddisfacente sulle misure che potrebbero sostenere la genitorialità, la ministra si permette di diffondere messaggi giudicanti su chi non fa figli. Intendiamoci: personalmente trovo che diventare padre sia la cosa più bella mai capitatami finora nella vita, ma se un’altra persona decidesse di fare una scelta differente, non sentirei di avere alcun titolo per giudicarla. E nemmeno il Governo, ovviamente.

La tragicomica vicenda-Lorenzin è quindi un problema prettamente politico, mentre in altri casi gli intenti erano totalmente condivisibili, ma ci sono stati autentici fallimenti dovuti ad errori comunicativi propriamente detti.

Il caso più evidente è rappresentato dalle numerose campagne contro la droga che si sono alternate, con dispendio di risorse pubbliche e senza che il consumo di sostanze stupefacenti accennasse a diminuire. Ed è questo, ovviamente, il vero danno per la collettività. Negli ultimi trent’anni sono state davvero numerose le iniziative sul tema, anche per via del diffondersi una patologia come l’Aids – della quale stranamente oggi si parla molto poco – strettamente correlata a stili di vita tipici della tossicodipendenza (anche se non solo).

La più celebre delle campagne è certamente “Chi ti droga ti spegne”, uscita nel 1989 e ricordata per l’utilizzo della metafora degli occhi bianchi, privi di pupille. Nello stesso anno, non a caso, debuttava il notissimo spot “Aids – se lo conosci, lo eviti”, entrato nella storia per l’alone fucsia utilizzato per evidenziare le persone contagiate.

"La droga ti spegne"
“La droga ti spegne”

Nel 1994 è circolato lo spot di “DrogaTel”. Infelice fin dal nome del servizio promosso, la campagna era estremamente confusionaria rispetto al messaggio, non spiegando assolutamente che tipo di informazioni si sarebbero potute ricevere. Esattamente il contrario del termine “pubblicità”, perché rendere pubblico significa far capire, non instillare dubbi. Nel 1998 è stato il turno di “Il vero sballo è dire no”, che però aveva il difetto di mescolare la tossicodipendenza ad una serie di altre “imposizioni sociali” riguardanti i giovani, peccando così di grave superficialità. In anni più recenti, si è provato a scimmiottare il linguaggio giovanile, con dei giochi di parole non sempre riuscitissimi, come “Io non calo la mia vita” e “Non ti fare, fatti la tua vita”.

Messaggi diversi tra loro, ma con un evidente tratto comune. Scopo di questi spot è informare il pubblico rispetto ai rischi che si corrono con l’assunzione di sostanze stupefacenti e, per farlo, spesso si usano immagini di forte impatto (come gli occhi sbiancati) o uno stile comunicativo che tenta di sedurre per imitazione (il gergo giovanilista).

Grave errore, perché parte da un assunto di base che è falso. A parte alcuni rarissimi casi di analfabetismo, non esiste più nessuno che non sappia che la droga uccide o che il fumo fa venire il cancro. Che senso ha ribadire questo messaggio? Nessuno, anzi: a volte sortisce l’effetto opposto. E’ il caso, ad esempio, di “Chi ti droga ti spegne”, del quale molti operatori specializzati dicono che, paradossalmente, per via dell’attrazione esercitata da un’immagine così inconsueta ha stimolato curiosità nei confronti della droga. Aggiungiamo, per completare il disastro, che la sola proibizione non può funzionare con gli adolescenti, che per loro natura sono portati a sfidare i limiti imposti dalla società per cominciare ad affermare la propria identità in costruzione.

L’autogol comunicativo nasce quindi da una carenza di cultura sul tema, che ha portato a confondere le conseguenze (i danni determinati dalla droga) con le cause (il motivo per cui si comincia). Pensare che il tossicodipendente sia un masochista che persevera in una logica di immotivata autodistruzione ha la stessa credibilità scientifica che ha portato Marco Masini a cantare “Perché lo fai?”.

Avendo lavorato in questo settore, suggerirei caldamente di ribaltare il paradigma ed accettare una realtà ovvia, ma evidentemente scomoda: non ci si droga per farsi del male, ma perché fa stare benissimo, almeno all’inizio. Diversi eroinomani paragonano l’estasi derivante dalla sostanza a un orgasmo moltiplicato per N volte e lo stesso vale per ogni tipo di dipendenza, che si tratti di cocaina, alcol, cibo, sesso o quant’altro.

Per questo non ha molto senso concentrarsi sui diversi effetti negativi di ogni specifica sostanza: è giusto conoscerli, ma bisogna ricordarsi anche se può essere dipendenti da qualunque cosa, ma mai per un’istanza autodistruttiva. Gli effetti collaterali generalmente arrivano dopo, quando subentra l’assuefazione ed il fisico ha bisogno di dosi sempre più elevate. Avvisare il tossicodipendente di questo futuro sviluppo è del tutto inutile: sia perché lo sa già, sia perché comunque una sua caratteristica è quella di negare la realtà, in primo luogo a se stesso.

Se volete capire bene il meccanismo, pensate ai fumatori, che potete essere voi stessi o qualcuno che conoscete bene. Quante volte avete usato o sentito scuse puerili come “ma tanto ne fumo poche”, “è l’unico vizio che ho” o “se anche non fumi, c’è l’inquinamento che ti fa gli stessi danni”? La verità è nota a tutti, anche a chi è schiavo del fumo, ma la dipendenza è in primo luogo una condizione psicologica, che porta a negare tutti gli elementi razionali che in condizioni di sobrietà ci eviterebbero di spendere dei soldi per fare del male al nostro corpo. Se non ci fosse questo potentissimo autoinganno, come potremmo continuare ad adottare un comportamento che alla fine diventa sì masochista, ma solo come conseguenza della ricerca del piacere immediato?

E’ un grave errore pensare che informazione ed educazione siano sinonimi. “Informare” significa passare una conoscenza da un soggetto all’altro, mentre “educare” etimologicamente viene dal latino “ex ducere”, ovvero “far venire fuori” dal soggetto in questione qualcosa che è dentro di lui. Il recupero di un tossicodipendente è quindi un processo attivo, mai subìto, che può cominciare solo quando la disperazione per gli effetti indesiderati di una pratica che prima gli dava solo piacere gli fa toccare il fondo. Altro che “mettere dentro” informazioni mancanti: si tratta di “tirare fuori” una spinta verso la vita che può arrivare solo dall’accettazione della normalità della stessa, con i suoi alti ed i suoi bassi. Da questo punto di vista, i primi 100 secondi di “Trainspotting” sono stati molto più utili di tante immagini pensate per scioccare il pubblico!

Cosa possiamo imparare da questi numerosi fallimenti? A mio avviso, almeno due cose:

1) Tecnicalità ed esperienza in campo comunicativo non bastano. Bisogna anche avere un idoneo livello di conoscenza del tema del quale ci si occupa. Sulla questione delle dipendenze io sono stato fortunato, essendomene occupato, ma in tutti gli altri casi bisogna avere l’umiltà di studiare. Se ti affidano la campagna elettorale di un candidato Sindaco, devi conoscere la realtà del comune in cui si vota. Se devi curare il lancio di un nuovo prodotto, devi esaminare il mercato ed il target specifico.

2) Non si deve pensare che, alla luce di quanto detto, manifesti e spot siano inutili nella lotta alla droga. Al contrario, possono essere formidabili coadiuvanti di un intervento che però deve essere integrato con altre misure. In presenza di un contesto adeguato, che va dalle istituzioni ai professionisti coinvolti, sarebbe davvero molto proficuo ed interessante lavorarci. Ma da un punto di vista diverso da quello finora adottato.

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La pubblicità antifumo del ministero della Salute britannico
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