Benessere

La restanza. Cambiare il mondo da fermi

22 Maggio 2022

Basso Salento. I villaggi si spopolano, la campagna è abbandonata. Un gruppo di giovani e meno giovani rifiuta di migrare come fosse la soluzione a tutti i problemi del territorio, decide di restare e legare il proprio destino alla terra. Alcuni anziani del paese possiedono particelle di terra che sono diventate un fardello, le mettono allora in comune, al servizio della comunità. Attraverso l’agricoltura organica, si dà inizio ad una trasformazione profonda che impatta il territorio e le persone, la sfera sociale, culturale e infine economica.

È il profilo di La restanza, film che Alessandra Coppola realizza nel 2021, seguendo un termine e concetto che nel 2011  in anni fa è stato proposto dall’antropologo  Vito Teti con il suo libro Pietre di pane

Restanza, precisa Vito Teti, “indica, un movimento, una tensione, un’attenzione, richiede pienezza di essere, persuasione, scelta, passione, non un pigro e inconsapevole stare fermi, un attendere muti e rassegnati. Restanza richiede la volontà di guardare dentro e fuori di sé, per scorgere le bellezze, ma anche le ombre, il buio, le devastazioni, le rovine e le macerie, comporta riscoprire la bellezza della sosta, della lentezza, del silenzio, di un complesso e faticoso raccoglimento, stare insieme”.

“Chi resta – aveva detto in un’intervista nel 2011 – vive l’inedita esperienza dei paesi che si sono spopolati, dissolti, sono a rischio estinzione: un grande problema per chi è rimasto ma anche per chi è partito. In qualche modo Pietre di Pane è giocato su questa ambivalenza, sulla sofferenza di chi resta e di chi parte, di chi torna ed è poi costretto a ripartire. Ho un’idea dell’identità mobile, dinamica, aperta, che in qualche modo riguarda sia chi è rimasto che chi è partito”.

Quell’idea aveva gambe per camminare e opportunamente Teti è tornato a precisarla anche perché il margine di ambiguità intorno a quel sentimento e a quella parola è altissimo e Vito Teti è assolutamente mosso e motivato a decostruirlo e a rimuoverlo.

La restanza intorno a cui propone di riflettere Teti è prima di tutto un vissuto, e soprattutto corrisponde a una pratica.

Scrive Teti nelle prime pagine del suo libro che con «restanza»  non intende proporre un “elogio del restare come forma inerziale di nostalgia regressiva” e dunque “non è un invito all’immobilismo.

Il suo, alla rovescia, è il tentativo di problematizzare e storicizzare le immagini-pensiero del rimanere come nucleo fondativo di nuovi progetti, di nuove aspirazioni, di nuove rivendicazioni. (…) Perché per restare, davvero, bisogna camminare, viaggiare negli spazi invisibili del margine.” (La restanza, Einaudi 2022).

Ma restare implica anche prendere consapevolezza di almeno altri due elementi su cui Teti insiste in questo suo libro che non vuol essere visione nostalgica o passatista o volta a «fermare il tempo».

Il primo è appunto il fatto, precisa che “restanza” non è separabile dall’esperienza dell’esodo e del migrare. Le due esperienze vanno comprese assieme. Partire o restare è il dilemma che appartiene alla storia dell’umanità fin dall’antichità e, nel nostro caso, ai luoghi che hanno conosciuto calamità, terremoti, frane, spostamenti, movimenti emigratori. Insomma, la stanzialità e la fuga sono due volti dello stesso fenomeno. Accanto al diritto di migrare, di spostarsi, quasi sempre per costrizione (fame, emergenze climatiche, guerre), si può e si deve rivendicare il diritto complementare di poter restare e di sopravvivere con dignità nel territorio dove si è nati, comunque si configuri la propria “identità”.

Il secondo dato, su cui appunti insiste Alessandra Coppola nel suo docufilm è scardinare l’immagine dei “paesi salvati” dall’abbandono o dall’esodo, come reinvestimento immobiliare, come residenza a “un euro”.

Se anche la vendita delle case a un euro avviene con alcune regole che i cittadini sono obbligati a rispettare per non vedersi togliere in seguito la proprietà dell’immobile (obbligo di avviare un piano di ristrutturazione che sia finalizzato alla ripresa e alla messa a nuovo della casa) finalizzato a recuperare gli immobili che rischiano di diventare delle catapecchie abbandonate, di ridargli valore economico e reintegrarli sul mercato, resta poi ilproblema che altro è costruire relazioni innqullo spazio.

Sostiene Teti appunto che i luoghi non sono elementi fisici, riguardano e coinvolgono, usanze, relazioni tra persone, e dunque il tema non è solo ridare valore economico, ma ricreare un habitat, o valorizzare un’esperienza che non è la riproduzione del tempo passato, ma la definizione di un progetto in cui ci sono le cose, ma insieme ci sono anche le persone, gli stili, il ritmo della vita del paese, le trasformazioni.

Perché la vita nei paesi in abbandono non è mai stata «tempo fermo».

Una tensione che Vito Teti ha raccontato anche parlando di altri luoghi, comunque non solo del suo paese natale dove ancora vive. Una tensione che anni fa ci hanno raccontato Antonella Tarpino nel suo Spaesati,  in un lungo viaggio da Nord a sud (Calabria inclusa), oppure Nuto Revelli con il suo Il mondo dei vinti, quando ci ha mostrato la trasformazione profonda delle sue Langhe.

Una tensione che si ripete nelle molte terre dei terremoti: quel senso di abbandono che prende molti e chi invece insiste per restare.

Quello non è solo un conflitto tra nostalgia e malinconia o tra rabbia e rivolta, comunque non è domanda di «ritorno al passato», ma una denuncia delle forme violente di distruzione del passato. Per dirla con Pasolini: una nostalgia sovversiva che fa del pane l’oggetto della propria identità culturale, su cui Pasolini insisteva nella sua lettera aperta a Calvino nel luglio 1974 e su cui insiste anche Teti ne La restanza.

“I luoghi non muoiono. Nemmeno quando le persone se ne sono andate. I luoghi continuano a vivere fino a quando ci sono persone ad essi legate, da essi provenienti, fino a quando qualcuno, magari discendente dalle persone nate nei luoghi, ne avrà ricordo“, senza nostalgia, ma con la voglia di cerare socialità, ovvero con un fine rigenerativo. Non conservativo.

Non l’elogio di “com’era e dov’era”. L’esatto contrario di una visione conservativa e sacralizzata  della società e dei luoghi.

Ancora in quell’intervista del 2011 che per molti aspetti possiamo considerare generativa di La restanza diceva che «restanza» non era solo un atto fisico, ma includeva un’etica. E spiegava che l’uso di quel termine – etica – non alludeva a una morale, ma riguardava il senso di un’azione che  così definiva:

«Adopero questo termine perché restare non è un fatto di pigrizia, di debolezza: dev’essere considerato un fatto di coraggio. Una volta c’era il sacrificio dell’emigrante e adesso c’è il sacrificio di chi resta. Una novità rispetto al passato, perché una volta si partiva per necessità ma c’era anche una tendenza a fuggire da un ambiente considerato ostile, chiuso, senza opportunità. Oggi i giovani sentono che possano esserci opportunità nuove, altri modelli e stili di vita, e che questi luoghi possono essere vivibili.

È finito il mito dell’altrove come paradiso.

L’etica della restanza è vista anche come una scommessa, una disponibilità a mettersi in gioco e ad accogliere chi viene da fuori. Noi adesso viviamo in maniera rovesciata la situazione dei nostri padri e dei nostri nonni. Un tempo partivamo noi, oggi siamo noi che dobbiamo accogliere.

Etica della restanza si misura con l’arrivo degli altri, con la messa in custodia del proprio luogo di appartenenza, con la necessità di avere riguardo, di avere una nuova attenzione, una particolare sensibilità, per i nostri luoghi. A volte facciamo l’elogio dei luoghi e poi li deturpiamo: quindi quest’etica del restare comporta anche una coerenza tra la scelta di rimanere e quella di dare, concretamente, un senso nuovo ai luoghi, preservandoli e restituendoli a una nuova vita…»

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