Benessere

“La mia vita di medico tra la Milano del lusso e la periferia”

14 Settembre 2021

La pandemia ha portato alla luce un problema sanitario sul territorio lombardo, che parte dalla mancanza di medici di base fino all’assenza di uno coordinamento tempestivo per arginare l’espandersi della malattia. A luglio 2021 è stata presentata la Riforma Sanitaria in Lombardia con il piano Fontana-Moratti. Riforma che vuole mettere al centro la medicina territoriale, prevedendo 100 distretti, 216 case della comunità, 64 ospedali di comunità e il 30% di nuove assunzioni, soprattutto fra infermieri. Ho incontrato la D.ssa Carla Brambilla, specialista epatologa e medico di famiglia in due studi a Milano, uno in pieno centro e uno alla periferia della città. La D.ssa Brambilla ci racconta cosa significa essere un medico di base oggi e come, insieme a un team di altre dottoresse, nei primi mesi della pandemia, ha ideato un progetto di Hot-Spot Covid. Progetto che potrebbe continuare a funzionare anche post-pandemia e che prende in considerazione alcuni aspetti, di fondamentale importanza, tralasciati però dalla Riforma Sanitaria.

Lei ha uno studio privato in via Montenapoleone a Milano, in pieno centro e un ambulatorio medico in viale Monza, zona periferica, dove assiste come medico di base circa 2.000 pazienti. Ci vuole raccontare un po’ la sua storia e dirci come è arrivata a operare in due contesti così diversi?

Credo fermamente nella figura del medico di famiglia e ci tengo a sottolineare il concetto di “medico di famiglia” invece di medico di base. Una persona che possa avere una visione del paziente a 360°, che gestisca la storia sanitaria del paziente, partendo dall’analisi familiare e dalla conoscenza delle patologie familiari e la conoscenza del paziente stesso, attraverso la prevenzione e la cura dell’eventuale malattia. Se segui una persona come medico di famiglia lo devi fare storicamente e medicalmente. L’esigenza di avere un medico di famiglia è fondamentale per qualsiasi tipo di persona nella popolazione, i ricchi, i poveri, chi ha disturbi o vive in una qualsiasi forma di disagio. È un diritto di tutti, garantito infatti dall’assegnazione del medico da ATS. Paradossalmente chi rischia di più sono le persone che hanno un potere economico maggiore e che spesso passano da uno specialista all’altro, senza però un internista che li possa seguire e che abbia la visione completa del quadro clinico e familiare. Quindi l’incontro con il Dottor Calì, cardiologo, mi ha portato successivamente ad affiancare alla mia attività di medico di famiglia in Viale Monza anche quella qui in Via Montenapoleone, dove, sempre come internista, seguo in forma privata alcune famiglie. Mai lontanamente ho pensato di abbandonare la funzione di medico di famiglia, una figura storica. Una volta le figure più importanti per le comunità di quartiere erano il parroco e il medico, i tempi sono cambiati ma i malati ci sono sempre. Per me i pazienti sono uguali, dedico loro la medesima attenzione, il tempo necessario. Le visite in forma privata godono di una tempistica maggiore diciamo più “rilassata”, ma i contenuti medici sono gli stessi.

2.000 pazienti sono molti, più del limite imposto da ATS, di questi la maggior parte è di origine straniera. Quali sono le difficoltà più significative che riscontra nello svolgere il suo lavoro, alla periferia di Milano?

Il problema del massimale dei pazienti, imposto da ATS è un problema particolare. Il massimale è di 1.500, però tutti i pazienti “a termine”, ovvero gli extracomunitari, chi ha il permesso di soggiorno in scadenza, tutti quelli che provengono da altre provincie italiane, si iscrivono con il medico a termine per 2 o 3 anni, poi scadono e devono riscriversi. l’ATS considera questi pazienti a termine in sovrannumero. Quindi sono 1.500 residenti a Milano, più un numero non precisato di persone iscritte a termine. C’è un’altra considerazione da fare, spesso i pazienti a termine, scaduto il periodo di iscrizione, si dimenticano di rinnovarlo. Se arrivano in studio e tu li conosci da 2/3 anni, ma non hanno rinnovato l’iscrizione, cosa fai? Li rimandi indietro? Io no. quindi ai 2.000 indicativi, vanno aggiunti anche tutti quelli che non hanno rinnovato l’iscrizione a termine. Le problematiche nelle zone disagiate ci sono, innanzitutto c’è il grande problema della barriera linguistica, a seguire problemi culturali, di integrazione, di compliance alla terapia, di aiuto e sostegno di fronte a patologie importanti. A questo si aggiungono i problemi degli anziani della zona, spesso soli, per i quali va attivata una rete socio-sanitaria; i pazienti con problematiche psichiatriche, perché i rapporti con il CPS sono spesso molto difficili, non riusciamo ad essere in contatto diretto con gli specialisti del territorio che magari hanno in cura i nostri pazienti. Per esempio se un mio paziente fa una visita specialistica in ospedale, per me è difficile entrare in contatto diretto con il medico che l’ha seguito. Posso leggere il referto dell’esame, ma non ho un confronto diretto.

In Lombardia c’è una significativa carenza di medici, soprattutto in periferia e nell’hinterland, perché secondo lei i giovani non scelgono più medicina? Quali azioni si possono mettere in campo, per non ritrovarsi senza più medici?

Parto con un discorso prettamente economico. Un medico di famiglia è un libero professionista, convenzionato con l’ATS. Guadagna 3 euro lorde a paziente, deve pagarsi l’affitto dello studio, la segretaria, le assicurazioni, le forniture, il ricettario e ovviamente le tasse. Lascio a voi i conti e capirete che, in una città come Milano, non stiamo parlando di cifre elevate come stipendio netto. Quindi anche questo problema economico costituisce per i giovani un ostacolo a scegliere di diventare medici di famiglia. Se lo fai bene e con passione è un lavoro massacrante, faticoso, che richiede un impegno a tutto tondo che a mio parere non è retribuito adeguatamente. I medici di famiglia non hanno malattia, non hanno ferie, quindi quando andiamo in vacanza, dobbiamo trovare noi il sostituto. Un lavoro nobile, non correttamente retribuito.

Ma se un giovane medico avesse la possibilità di affiancarvi, non potrebbe essere una buona palestra per poi scegliere di diventare medico di famiglia?

Noi saremmo molto contenti di questo, ma i giovani da noi non si fermano. Un esempio: per fare qualche giorno di vacanza, ho dovuto cercare 3 sostituti diversi, perché nessuno vuole fare il medico di famiglia. Spesso, a causa anche di alcuni colleghi che hanno snaturato la professione, mostrandosi solo come degli “amministrativi”, non si ha una percezione reale della complicanza di tutto quello che un medico di base, se fa bene il suo lavoro, deve seguire. Ci sono tutte le visite giornaliere in ambulatorio, le consulenze telefoniche, le email per le consulenze e le questioni burocratiche, le visite domiciliari, i follow up dei pazienti cronici, la prevenzione e il counseling del paziente, l’adesione ai piani di vaccinazione, il sostegno socio-sanitario, l’autogestione dello studio, tutte le certificazioni, tutta la prescrizione degli ausilii, i controlli dei piani terapeutici, l’aggiornamento e i rapporti con l’ATS. Poi ovviamente, come in tutte le categorie c’è chi fa il proprio lavoro meglio e chi fa il minimo necessario. È un quadro molto complesso. La professione è stata molto svalutata, anche dal punto di vista culturale e letterario. Prima il medico di famiglia era una figura centrale, lentamente ha preso piede l’idea del medico “passacarte”, che non è mai stata reale. Io conosco i miei 2.000 pazienti per nome. Siamo la prima figura dove il paziente va se ha bisogno, diversamente vanno in pronto soccorso.

Lei perché ha scelto di iscriversi alla facoltà di medicina?

Era un sogno che avevo fin da piccola e la mia storia scolastica mi ha aiutato. In 1a elementare la maestra mi ha detto che disturbavo, mi ha fatto sostenere l’esame e mi ha mandato direttamente in seconda. Al secondo anno di liceo, al Manzoni di Milano, il mio professore Quirino Principe disse a me e alla mia compagna, che poi ha fatto medicina con me, di provare a fare l’esame di maturità da privatista per uscire un anno prima. Quindi io e la D.ssa Erminio abbiamo preparato la maturità in 2 mesi, portando tutte le materie e iscrivermi così alla Facoltà di Medicina a soli 17 anni. I miei genitori erano molto contrari, non volevano che facessi medicina, ma per iscrivermi, in quanto minorenne, avevo bisogno di una firma e me l’ha fatta mia nonna, di nascosto. Il mio sogno era quello di fare la psichiatra, poi prendendo conoscenza della complessità della materia psichiatrica, non me la sono sentita e nel frattempo mi sono innamorata della medicina interna e lì sono rimasta. Mi hanno sempre mosso l’idea della cura dell’altro e la materia in sé, mi divertiva studiare medicina.

Parliamo di Covid. Il sistema sanitario è andato completamente in tilt. Come è possibile che nel 2020 non esistano dei protocolli efficaci per fronteggiare una pandemia? Cosa è andato storto?

In primis non c’era un piano pandemico e non era stato rinnovato per tantissimi anni, quindi ci siamo trovati tutti orfani, come se ci fosse una guerra nucleare e non sapessimo qual è il piano per fronteggiarla. Il secondo errore è stato quello di non utilizzare immediatamente la figura del medico di famiglia come prima rete. La medicina di famiglia ha la caratteristica di avere la capillarità del territorio, quindi siamo i primi che riceviamo la telefonata, nella quale ci viene comunicato che il paziente ha la febbre. Si doveva procedere subito con una piattaforma di segnalazione dei casi febbrili. La maglia così si sarebbe ristretta. Altro errore è stato non aver istituito subito dei centri dedicati ai malati Covid. I pazienti venivano mandati al pronto soccorso e questo, come sappiamo ha causato una commistione di pazienti, ma soprattutto il vero problema era che non riuscivamo a capire quando mandare il paziente in PS. La piattaforma di segnalazione è arrivata troppo tardi, portando il medico di famiglia alla totale impotenza e il paziente si presentava al pronto soccorso troppo precocemente o troppo tardivamente. Non è stata creata la maglia a reti fisse, che era già lì pronta. Quello che andava fatto era: medici di famiglia, portale di segnalazione immediato, creazione di Hot-Spot Covid dedicati (come i 3 che sono stati fatti poi a Milano), utili a fare il punto della situazione del malato Covid e decidere così chi andava in PS e chi poteva tornare a casa ed essere seguito da lì. Questi Hot- Spot sono stati fatti solo a gennaio 2021. La nostra proposta scritta di progetto per gli Hotspot, uno per municipio, è stata pubblicata in data 1 giugno 2020. La delibera di Gallera è arrivata a novembre 2020. Ne sono stati fatti solo 3 su 9 (infatti l’obiettivo era creare una rete capillare su tutto il territorio) e sono stati realizzati, grazie alla buona volontà dei colleghi: D.ssa Chiara Cogliati del Sacco, D.ssa Nuccia Morici di Niguarda, Prof.ssa Patrizia Rovere Querini del San Raffaele, D.ssa Maria Teresa Zocchi dell’ordine dei medici e con l’aiuto della Fondazione Veronesi.

Possiamo entrare meglio nel dettaglio del progetto HotSpot da voi proposto, che probabilmente  avrebbe evitato il collasso delle terapie intensive in periodo Covid, ma che rimane un progetto valido, per gestire al meglio il sistema sanitario territoriale.

Parto infatti dagli obiettivi della riforma sanitaria, ovvero l’integrazione fra ospedale e territorio. Partiamo dall’Hot-Spot Covid, ricordandoci tutti i compiti del medico di famiglia che abbiamo elencato prima. davanti al paziente Covid positivo il medico di famiglia ha l’esperienza e la conoscenza del paziente e il follow up telefonico, ma non ha i mezzi diagnostici di monitoraggio, non ha l’ECO, non ha l’ECG, non ha la possibilità di fare un emocromo e una PCR. Qui il grande dramma: quando mando il paziente Covid in PS? Il Covid è una patologia che in nona/decima giornata tracolla in poche ore. Abbiamo quindi proposto gli ambulatori Hot-Spot a giugno 2020, auspicando 1 sede per ognuno dei 9 municipi. Come detto prima la delibera è arrivata a novembre 2020 e a gennaio ne sono stati creati 3 su 9 auspicati (Sacco, Niguarda, HSR).

Quali sono le caratteristiche dell’Hot-Spot Covid?

Mai per autopresentazione, ma sempre su invio del medico di famiglia.
I pazienti sono selezionati per stratificazione del rischio o segni di evoluzione sfavorevole
il paziente esegue lì delle prestazioni specifiche (esami ematochimici, emogasanalisi, eco polmonare, visita specialistica, rx torace).
Grazie a questo semplice iter il paziente viene inquadrato e se è a rischio viene ricoverato, se non è a rischio torna dal medico di famiglia, con il suo quadro. Inoltre all’Hot-Spot Covid possono prescrivere farmaci monoclonali, non prescrivibili dal medico di famiglia. I punti deboli al momento sono: il numero insufficiente di Hot-Spot, una scarsa comunicazione ai medici dell’attivazione di queste strutture, l’eccessiva burocratizzazione e l’esclusivo invio dei pazienti solo da parte dei medici di famiglia e non da parte di altri medici curanti o specialisti.

L’Hot-Spot quindi ha senso anche al di fuori dell’emergenza sanitaria?

Certamente. La pandemia ci ha insegnato che il medico di famiglia non è armato nei confronti della diagnosi strumentale. Facciamo un esempio concreto. Arriva in studio un paziente, lo visito e sento che ha un’aritmia, non sono una cardiologa e non uso l’ECG, perché non possiamo essere dei tuttologi, ho però un dubbio, si tratta solo di un’aritmia o di una fibrillazione atriale? Dal punto di vista del rischio della patologia cambia il mondo. Per sfatare il dubbio basta un ECG. Io oggi con questo dubbio posso solo mandare il paziente in PS, dove probabilmente sta 10 ore, intasando il pronto soccorso per un’urgenza intermedia, cioè un dubbio diagnostico. Se gli Hot-Spot ci fossero, anche oltre il Covid, per valutare un’urgenza intermedia, si risolverebbero moltissimi problemi di inquadramento del paziente e di sovraccarico dei PS. Questo non può essere fatto dalla Casa della Comunità proposta dalla Riforma Sanitaria, che prevede appunto Polo territoriale della SST, Distretto, Casa della Comunità, Centrale Operativa Territoriale e Ospedale di Comunità, manca quello di cui abbiamo parlato fino ad adesso: la valutazione dell’urgenza intermedia. Vi lascio un dato significativo: in un mese in Lombardia ci sono 44.000 codici bianchi nei PS, ovvero gente che va senza necessità. Una spesa per il sistema e un “furto” di risorse alle urgenze reali.

Prossimi passi e aspettative?

Siamo in contatto con due persone della Regione, di due fronti politici diversi, che ci hanno promesso che chiederanno un emendamento. Il nostro gruppo di lavoro è in costante contatto, anche perché si vorrebbe fare di tutto per tenere aperti questi Hot-Spot anche dopo l’emergenza Covid. Se non si riesce a fare un emendamento alla Riforma Sanitaria, che vada verso la direzione da noi proposta, i medici di famiglia saranno sempre disarmati. Già siamo in pochi, abbiamo tantissimi pazienti da seguire, ma non abbiamo gli strumenti adatti per farlo. Spostare i medici di famiglia nelle case di Comunità non ha alcun senso, perché si toglie la risorsa vera dell’MMG, che è stare nella via del malato. Il paziente deve arrivarci a piedi dal proprio medico di famiglia. È necessario preservare la capillarità del territorio, aumentando i medici di famiglia, riqualificarli e favorire il legame con l’ospedale, sia per il paziente cronico sia per l’urgenza intermedia. Fateci lavorare bene, questa è la nostra richiesta!

Vaccino obbligatorio sì o no?

Sì assolutamente

Quanto è corretto per un medico, che i propri principi, religiosi e morali, interferiscano con il suo operato?

Io credo che non si possa andare contro i propri principi, l’idea deve entrare nella propria professione, e ci si deve prendere la responsabilità della propria scelta. Sarà poi il paziente a decidere se rimanere con quel medico o no. La libertà resta quella del paziente, ma non si può imporre ad una persona di andare contro le proprie idee o il proprio credo. Diversamente se questo nuoccia alla comunità. Un medico che si rifiuta di vaccinarsi e continua a fare il suo lavoro, crea un rischio per i suoi pazienti e di conseguenza per la comunità. È quindi un rischio sanitario ed è giusto che venga rimosso.

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