Benessere

In questi posti davanti al mare, non ci si può più stare

30 Ottobre 2018

Non ho ancora avuto il coraggio di andare a vedere se c’è ancora la mia barca, giù al mare. E lei lo sa, signor Sindaco, quanto ci tengo alla mia barca. Se ci sarà ancora sarà una fortuna, se non la troverò più sarà una fatalità, un evento eccezionale. Cause di forza maggiore, non certo colpa sua.
Ma già che va a farsi fare due riprese video e due interviste per i tg locali, per favore mi ci guardi lei se c’è ancora, che io non ho il coraggio.

È da un bel po’, signor Sindaco, che volevo scriverle. Cioè, non è che non l’abbia mai fatto. Le abbiamo scritto per chiedere di asfaltarci la strada. Abbiamo scritto per le tubature dell’acqua che perdono da anni. Abbiamo scritto per avere la fognatura ma poi vabbè ce la siamo fatta e pagata da soli. Abbiamo scritto e telefonato e ci siamo rivolti allo sportello del cittadino per far ritirare la spazzatura che, da quando è stata istituita la differenziata porta a porta, alla nostra porta non è mai stata ritirata.

Che poi, il porta a porta dell’umido qui in mezzo coi cani e coi cinghiali diciamocelo signor Sindaco non è che sia una grande idea. Comunque intanto la spazzatura, Sindaco, i miei vicini la bruciano. A me questa cosa non piace, però, così noi andiamo a buttarla nei bidoni dell’autogrill, sul retro dell’autostrada. Oppure quando andiamo a cena da amici portiamo due paste per i padroni di casa, e un sacco di rumenta da buttare nei loro bidoni.
Abbiamo scritto e telefonato e ci avete detto di metterci d’accordo direttamente con l’azienda incaricata. Direttamente. Ma naturalmente loro non prendono ordini da noi e han detto che il loro camion è troppo grosso, nei caruggi e nelle creuze non ci passa.

 

Anche con l’ambulanza ho parlato direttamente, quella volta, perché dopo aver chiamato il 112 sentivo la sirena suonare, suonare, ma non mi trovava. Ho richiamato e me li sono fatti passare – e menomale che potevo parlare – e li ho guidati a voce fino a casa, perché la strada comunale dove il Gps li portava è ormai un bosco impraticabile e loro erano là, con la loro sirena, incagliati tra i cespugli.

«Ormai è un bosco, che cosa ci vuol fare», mi ha detto il capo dei vigili quando ho chiesto di far tagliare l’erba del prato della casa abbandonata, ha presente. Quella coi topi, e senza finestre e la muffa, sa, accanto alla mia.
Lo dicevo mica per cattiveria ma per evitare che bruci tutto di nuovo visto che l’erba è alta e secca e cresce contro le case.
Come quella volta che è bruciato tutto il monte e la forestale ha portato via mia madre e i lapilli sono entrati in casa e ci si è fuso persino il frigorifero e chissà come ha fatto la casa a non andare a fuoco. Ha ragione, ha ragione, era tanto tempo fa. Un’altra giunta, ovvio.

 

Anche coi guardacaccia e la forestale ho parlato direttamente, signor Sindaco, perché venissero a sgomberare le tagliole dalle fasce del vicino bracconiere, dopo che mi aveva intrappolato il gatto.
E quando sono riuscita a far venire i pompieri per quel daino preso al laccio, e poi i vigili, e ho chiesto se non si potessero comminare sanzioni per le fasce a rischio incendi e per le tagliole e per le tettoie di amianto e per le case abbandonate e fatiscenti e la muffa e i topi, e per le strade scavate senza permesso, e per la casa abusiva qui sotto e per le deviazioni degli scoli e i tombini intasati che mia madre non ce la fa più da sola con la zappa.
Prima di rispondermi che non si poteva fare niente hanno voluto sapere di chi erano le proprietà. Ah, ma all’avvocato non possiamo fare un’ordinanza. Ah, ma quelli sono dei criminali terroni figuriamoci se pagano la multa. Uh, quelli son gente dell’ex ministro, dice il vigile. Di quelli che usavano i voli di linea come aerei privati. Una volta abbiamo cercato di prenotare un volo per Roma e ci hanno riso in faccia ahah.

E tutto il paesino da allora mi guarda male, perché ho fatto la spia sulle tagliole. Mi hanno detto, giuro, che il daino avrei dovuto ucciderlo e mangiarmelo, che così si fa.

Metterci d’accordo direttamente. A chi, a chi ci si può rivolgere direttamente quando sei malato terminale e dall’ospedale ti chiama un’infermiera di nascosto e ti dice che i valori non sono a posto, meglio se va a farsi ricoverare in un ospedale. No, non qui, dice, «vada in un ospedale vero».

A chi rivolgersi quando ricoveri un anziano in casa di cura e il giorno dopo trovi il primario, il primario! che è già lì a misurare il podere del vecchietto. A chi, signor Sindaco?

 

Cumulonimbus incus

I cumulonembi a incudine sono le mie nuvole preferite, a vederle da lontano. Enormi, composite, spettacolari. Giochi di luce nei gomitoli d’aria, e sopra quel tetto di cirri che le schiaccia. Sotto, accumuli di energia e fulmini e pioggia.

C’era un cumulonembo a incudine sopra Genova, il giorno che è caduto il ponte. È stato lì sopra tutta la mattina. Noi che eravamo a Ponente, che poi non è di lato ma è di fronte, dall’altra parte del Golfo, lo vedevamo che non si spostava.

E piangevamo piangevamo davvero per quel ponte che non c’era più, il ponte della nostra infanzia e della nostra speranza.
Era stato il ponte dell’industria che ripartiva. L’Ansaldo, la Fincantieri, l’Ilva.
Il ponte che univa i bambini di pianura alle colonie di Riviera. Le prime case al mare. Case povere, di piastrelle e ringhiere, per gli operai terroni migranti al nord che finalmente potevano permettersi di villeggiare.

La supremazia del mattone. Ancora adesso, signor Sindaco lei lo sa bene, la legge regionale sull’edilizia raccomanda di privilegiare l’industria del mattone. Cemento, cemento armato in riva al mare. Nei greti dei torrenti.

Quando sono scivolate a mare le Cinque Terre se lo ricorda, no? Pare che il problema fossero i parchi. Troppa natura e poco mattone, si ricorda Sindaco? E allora la soluzione è edificare nei parchi e tutti giù a destinare il territorio a parchi mattonabili, nei nuovi piani regolatori.

 

Era il ponte di questa regione fatta a nastro, contorta, avara. Di gente mugugnona e operaia e camalla. Di gente anarchica e ribelle e poeta e frustrata. Mazzini, Pertini. Medaglia d’oro della Resistenza. I circoli operai, le BR. Il G8, la Diaz. Montale, Caproni, De André. Ribelli e anarchici e al tempo stesso campioni di resilienza e adattamento. Inadatti al turismo, inclini al suicidio. Insofferenti all’autorità ma capaci di rassegnazione.

Dalle mie parti ci si saluta in questo modo: «Cum’a l’è?» «A l’è cuscì». Come va? Va così, come vuoi che vada. Va così.

Se non è resilienza passare sopra un ponte per decenni, o viverci sotto. Usare l’autostrada per andare a scuola e a lavorare, senza nemmeno trovarlo folle. La sopraelevata che deturpa una delle piazze d’acqua più belle d’Italia. Guardate Trieste, piazza Unità, il molo Audace e poi venite qua a Sottoripa, a Caricamento. E chiedete ai genovesi, vi diranno che la trovano anche bella. E riflettete.

 

Quando eravamo piccoli, nella nostra vita ballerina di spostamenti continui su una terra che è fatta a nastro, i nostri genitori ci stancavano a sfinire per farci dormire in macchina. Ma quando arrivava il ponte (il Ponte Appeso, lo chiamavamo noi. Ma in ogni lessico famigliare aveva un suo nomignolo) ci si svegliava: c’è il Ponte! Il Ponte Appeso! Il Pontappeso! E per un momento eravamo lì, insieme, sempre, per sempre: una famiglia che andava a casa.

Erano gli svincoli micidiali dei Viaggi e Miraggi, era la curva dietro la quale improvvisamente il mare.

E ancora oggi noi che siamo rimasti, che abbiamo pianto le nostre lacrime e ogni volta pensiamo che siano state le ultime e ogni volta scopriamo che ne abbiamo ancora. Ancora oggi, anzi fino a ieri, quando passavamo su quel calcinaccio di ponte pensavamo a chi non c’è più e a quando eravamo bambini ed esclamavamo ancora “c’è il Ponte! Il Pontappeso!” ed eravamo ancora lì, di nuovo insieme. Famiglia.

Sulla spiaggia di Ponente, alla vigilia di Ferragosto, abbiamo pianto. Abbiamo addirittura sperato (dobbiamo vergognarci a dirlo?) che si trattasse di un attentato.

 

Ora siamo staccati. Recisi. Siamo Francia, Spagna, Marocco. Ci abitueremo. Se non ci sarà maltempo, per andare a Roma prenderemo la nave per Civitavecchia (sperando che non scelga di inchinarsi al Giglio). Per mandare i nostri carciofi, i nostri pomidoro, le nostre favolose zucchine trombette a Livorno o Pisa passeremo per Alessandria e Parma, e quando anche l’Autostrada dei trafori sarà irrimediabilmente intasata i nostri fiori in Svizzera non ci arriveranno più. E nemmeno le vostre merci sbarcate dai cargo a Marsiglia.

La torta di riso? È finita, dice una nota gag.
Genova non è più per noi, qui, noi che stiamo nelle serre in fondo alla campagna. E nemmeno i porti avremo più, quei marina carissimi e malmessi ma tanto comodi dall’autostrada, finché c’era. Avrà ragione, chi avrà salvato la barca, a portarla a Nizza e a Mentone.

È tornata ieri l’incudine, signor Sindaco, o forse non se n’era mai andata.
E qui, oggi, sotto quell’incudine c’è solo pioggia, pioggia, pioggia (e Francia).

 

 

 

(La foto di apertura è Rapallo, scattata da Fabio Martinasco)

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