Benessere

Il primo Francesco di Facebook

2 Maggio 2017

Sono stato il primo Francesco su Fb, iscritto a febbraio 2007. La mia ragazza all’epoca era sud africana, e mi invitò a far parte del network, già abbastanza conosciuto nel mondo anglosassone.

Avevo solo lei come amica, e Facebook era molto diverso. C’era la possibilità di personalizzare il proprio profilo, che in alto aveva una mappa su cui inserire bandierine su tutti i posti visitati. Si poteva fare il test per il quoziente di intelligenza, persino l’oroscopo o un collage dei filosofi preferiti. Fb era abbastanza nerd.
Poi mi aggiunse Kirk, uno scozzese che mi aveva ospitato in quel di Glasgow, in Scozia, durante uno scambio scolastico nel 1998. Beati scambi scolastici.

“Come mi hai trovato?” gli chiesi.

“Ho digitato ‘Francesco Italy’”, rispose.

Ebbene sì, alla voce “Francesco Italy” c’ero solo io. Quanto vorrei averne fatto uno screenshot! E di italiani ce n’erano poche decine, tanto che feci un piccolo esperimento. Avevo appena pubblicato un libro, sul Brasile, e feci un post in cui offrivo gratuitamente il libro, scritto in italiano. Una dozzina di persone si fece avanti, e inviai loro il libro, gratuitamente. Ironicamente, proprio tra noi primi italiani su Fb non ci fu la minima consapevolezza di quello che sarebbe stato di lì a poco.


Fb è nato come una specie di confraternita online, sulla scia delle associazioni studentesche delle università americane. E all’America ho sempre guardato, sin dai tempi di yahoo chatroom.

Io sono della generazione appena precedente a quella dei millennials, anno 1981 (formalmente vengono considerati millennials i nati dal 1982 in poi). Ho studiato un anno negli Usa nel ’99-00 e lì ho vissuto l’ansia da millennium bug. Lì mi sono registrato alla mia prima email, hotmail, di cui mi vergognavo perché pensavo fosse una cosa erotica, per via della parola “hot”. Non capivo davvero come funzionasse, ma poco alla volta, tramite incontri on the road e scambi casuali di email, ho iniziato a scrivere email, a mantenere contatti.

Ho avuto il mio primo telefono cellulare dopo la patente per l’auto. Ho imparato a giocare ai videogame casalinghi con il Commodore 64 e l’amiga 500, e pochi anni dopo mi sono ritrovato con le consolle e i videogame da giocare online con persone da tutto il mondo. Ciascuna volta, da quando giocavo a Paper boy, a quando mi sono iscritto su Fb, sapevo che quell’esperienza era epocale, ma non mi rendevo conto di cosa avrei potuto fare io per cavalcare quell’onda.

Mi sono limitato a testimoniare, a cercare di partecipare in qualche modo. Prima aprii un blog, con centinaia di commenti e interazioni. Erano gli anni in cui chi partecipava alla rete comunicava spesso attraverso forum e chat di gruppo. Poi la piattaforma di blog su cui ero registrato chiuse, e io mi feci uno di quei backup di tutto il materiale che si ha, come un trasloco in uno scatolone che non si aprirà mai più. Lo stesso successe alla miriade di contatti che avevo su Yahoo chatroom. In sostanza si poteva scegliere che stanza frequentare, e ogni stanza aveva dei contatti che postavano pubblicamente delle domande o delle osservazioni. Io frequentavo quasi sempre “Books and literature”, a volte “Classical music”, e meno spesso “Italy” (in cui c’erano solo gli antenati dei troll), o “Religion” o “Philosophy”. Così conobbi la mia prima ragazza nel periodo in cui abitavo negli Usa, un’indiana che viveva a Toronto. Così conobbi pure la mia seconda ragazza, una croata che viveva a Pittsburgh. Non voglio manco pensare a quante persone si siano conosciute così, a quanti bambini siano nati dopo casuali incontri su Yahoo chatroom. Tutto scomparso da un giorno all’altro, deciso chissà da chi, e noi che eravamo abituati a parlare lì, non solo di cose romantiche (giuro!), ci siamo ritrovati con la nostra prima sconfitta digitale. Non eravamo padroni del nostro destino, che iniziava quindi a dipendere dal beep del modem, dalle decisioni di altavista o yahoo. Nel frattempo però, non c’era tempo per guardare indietro, e i contatti, su hotmail, aumentavano. Iniziò hotmail messenger, e yahoo messenger. Venne meno quindi lo spazio “pubblico” di discussione, per privilegiare le comunicazioni private. Arrivarono i laptop e i telefonini, e quelli che erano i computer per tutta la famiglia iniziarono a essere proprietà privata di ognuno (non per niente Pc sta per personal computer). Fino a oggi in cui ognuno è già loggato automaticamente nel proprio profilo, e i device sono strettamente personali. Abbiamo visto crescere la personalizzazione della comunicazione (e della nostra profilazione online) di pari passo con i contatti che intanto conoscevamo nella vita.

Con un fogliettino di carta e poche parole scritte legate dal ”@“ era possibile incontrarsi di nuovo, magari in un altro continente e in un altro decennio. Questa è la mia storia, come persona che già a 18 anni viaggiava il mondo, vedendolo restringersi rapidamente, mentre la lista dei contatti continuava ad allungarsi e a integrarsi nei nuovi modi di comunicazione. Negli anni, alcuni di quei contatti sono rimasti, e traslati nel mio account facebook. Ora ho quasi 5000 amici, tantissimi per una non celebrity. Su Fb ho passato migliaia di ore della mia vita, e credo che in molti, tra i più vicini a me, mi considerino un po’ ossessivo nell’aggiornamento di status e nella celerità nel commentare o rispondere ai commenti altrui.
Su Fb ho fatto amicizie, centinaia (davvero!), ho organizzato concerti e flash mob, pièce teatrali, l’ho utilizzato per arrivare a persone più importanti di me, o persone ben oltre i 6 gradi di separazione. Ho aggiunto persone a caso in tutto il mondo, e con alcuni sono rimasto in contatto, da El Salvador alle Filippine. Ogni contatto virtuale ha avuto un effetto reale sulla mia vita, e ne sono contento, perché ho sempre cercato di mettere il virtuale al servizio del reale (e forse, poco alla volta, anche viceversa, ma su questo torno tra poco). Su facebook, se ti va bene, puoi essere “amico” di persone molto più importanti di te, e magari vivere di luce riflessa quando queste persone accettano il tuo tag. Su facebook, come su instagram, si può diventare celebrities dal nulla, o almeno “media influencer”.

Ed è qui che il reale va al servizio del virtuale, e non viceversa. Per ogni piatto fotografato da un aspirante food blogger, c’è un gourmand che intima di “non lasciarlo raffreddare!”. Per ogni foto di sé, i famigerati autoscatti, ribattezzati “selfie”, c’è un fotografo che si lamenta che oggi si credono tutti fotografi. Per ogni filtro utilizzato nelle proprie foto, c’è un pezzo di realtà che si sbriciola, perché iniziamo a vedere tutto in funzione di quello che ci faremo online. Siamo in vacanza e non vediamo l’ora di fare una foto dei nostri piedi con sfondo mare. Siamo in una tragedia e non vediamo altro che il nostro telefono, cercando così di scaricare la nostra tensione, la nostra ansia e paura di vivere, in questo piccolo strumento che media tra noi e il mondo. Stiamo diventando tutt’uno con i nostri avatar digitali, che forse hanno copulato col cybersex più di noi col sesso “normale”.
Ci sono usi differenti di Facebook e dei social, ma alcune caratteristiche sono universali. In primis, su Facebook si può avere a che fare con persone che non conosceremmo altrimenti, lo si può fare per scopi vari, dal cazzeggio al romanticismo, ma sui social si può anche cercare di trovare lavori, da freelance. Ci sono quindi delle ricadute sulla vita reale, che hanno a che fare con i nostri obiettivi. Il mio obiettivo è sempre stato conoscere persone con cui collaborare per motivi giornalistici e creativi, persone da visitare nei miei viaggi, persone da ospitare, contatti utili ad ampio spettro. Fino a quando, recentemente, è iniziato questo trend dei “followers”, gente che ti segue, gente che segui, e quindi non è più un “uno vale uno”, ed è diventato evidente che alcuni contino molto più degli altri.
LA SCALA MOBILE

Per uno come me, fuori dai network “pesanti”, a partire da Harvard (Facebook è nato innanzitutto come sistema interno a quell’università di Boston), non era facile farsi spazio tra i contatti che contano. Ora ho tra i miei contatti giornalisti e fotografi di prima categoria, grazie al fatto che ho chiesto loro l’amicizia prima che i loro profili arrivassero alla fatidica soglia dei 5000 amici. In oltre 10 anni di Facebook ho visto i giornalisti e i comunicatori imparare a usare questo mezzo per cercare di fidelizzare il proprio pubblico, oltre che per motivi personali.

Eppure all’inizio, i giornalisti italiani se ne sbattevano di facebook, e ricordo varie telefonate a programmi telefonici, per cercare di parlare loro di facebook, della rivoluzione che stava arrivando. Ma niente, non mi davano ascolto perché non ero nessuno, perché non capivano di che stessi parlando, nonostante facebook fosse già grande nel mondo anglosassone. Erano i tempi in cui il profilo stesso di Zuckerberg accettava ancora amicizie e messaggi privati.
E poi venne Meredith Kercher. Le foto della giovane inglese uccisa a Perugia il 1 novembre 2007, venivano infatti da Fb, e fu lì che i giornalisti italiani scoprirono finalmente facebook. Da lì in poi, non ero più il solo Francesco su facebook.

Prima di facebook era arrivato myspace, e ancora oggi c’è chi si domanda se Myspace esista ancora (esiste, ma è come se non esistesse). Che fine hanno fatto quei contatti, quei contenuti che avevamo messo su Myspace? E’ importante essere pronti per l’assenza, per il cambiamento.

L’anno scorso, ad agosto, ho avuto la dengue, la febbre tropicale. Ero in Filippine per fare interviste su Duterte e Davao, la città in cui il presidente filippino si è guadagnato la reputazione di giustiziere senza scrupoli. Una sola foto di me sul lettino d’ospedale mi ha portato a conoscere decine di persone preoccupate per la mia salute, pur non avendo mai parlato con loro su fb.
Altre volte ho trovato relazioni, lavori, collaborazioni, amori.. Facebook è diventato parte integrante della mia vita, tanto che mio figlio, di neanche 6 anni, dice che “lavoro nelle stazioni dei treni e poi su Facebook” (nelle stazioni faccio un canale online indipendente chiamato www.termini.tv). Addirittura il correttore automatico vuole aggiungere la fatidica maiuscola alla F di facebook. Tutti ne riconosciamo la forza, e in molti ricordiamo il mondo prima di facebook.

Una cosa in comune a tutti questi network è la necessità di comunicare, di conoscersi e di creare possibilità di collaborazione. Con la rete, ci sono addirittura politici che hanno fatto fortuna.
Si sono create nuove sovrastrutture, nuovi gruppi in cui il moderatore fa la parte dell’opinion leader invisibile. Si sono creati casi di bufale e notizie false, gruppi razzisti, ci sono addirittura stati casi di suicidi e crimini commessi in diretta (soprattutto negli Usa). C’è gente che è morta mentre veniva ripresa da un telefonino su facebook live. Ci sono stati tentativi di rivoluzione online, su twitter come su facebook (dalla rivoluzione verde iraniana, a quella egiziana), e finora una delle principali fonti di informazione al mondo è proprio Fb. Così mi hanno risposto molti filippini appassionati del loro presidente Duterte. “Leggiamo le informazioni su facebook”.
Ma cosa sono esattamente le informazioni, quando non si è certi che le opinioni si formino su fatti reali?

Il 1 aprile 2017 ho postato una foto di Termini con la didascalia “firmato accordo con Repubblica”, e sotto, alla seconda riga, “attenzione alle #fakenews, con tanto di hashtag”. Niente, non è bastato questo, e neanche la data del 1 aprile per far prendere criticamente la frase. Quasi tutti mi hanno fatto i complimenti, anche a distanza di giorni, anche da parte di chi non aveva messo like o commenti. Che poi l’annuncio fosse credibile (e in effetti Repubblica aveva promesso di acquistarci contenuti, salvo poi non mantenere la promessa) è un’attenuante per chi ci ha creduto, ma comunque è triste constatare come la comunicazione, e la comprensione stiano divenendo sempre più superficiali.
“Io guardo tutto, ma non mi piace mettere like o commenti”, mi hanno detto in diversi. Ognuno vive facebook a modo suo, e non conta solo l’età o l’estrazione sociale, bensì il modo di relazionarsi agli altri. Introversi ed estroversi, ad esempio. Ma anche il tempo libero. Certamente chi ha poco tempo libero non lo dedicherà a stressarsi nella comunicazione social, con tutti gli annessi e connessi (messaggi, notifiche ecc.). Eppure ci sono persone che fanno un uso intenso di social, pur non essendo particolarmente interessati alla tecnologia, per motivi politici o di notorietà.
Ecco, diciamo che stacco facebook perché non voglio diventare un Salvini o un Tommasi, perché i social premiano ciò che è legato all’attualità. I “trending topic” sono la base su cui si formano le opinioni, come anche su twitter, ad esempio, e tutto il resto è dato in pasto alla rete. Ci sono perle, e poi tante alghe e spazzatura che galleggiando è la prima a essere vista. Facebook ha accentuato in me la voglia di essere notato, apprezzato, anche criticato. Se questo fosse possibile pubblicamente, le critiche specialmente, mi piacerebbe poter commentare a ogni rilievo, ogni commento. Insomma, sono palesemente compulsivo nel pensare a me come un argomento di discussione. E facebook accentua questi egotismi in modo paradossale.

illustrazione di Enrico Natoli per TerminiTV

“Mi piacerebbe tu avessi assistito alla mia danza, invece di filmarla”, mi disse una volta una mia amica, Francesca. Ecco, con facebook sono sempre dietro alla macchina da presa, e “mi faccio il mio film”. Un film che gira attorno ai miei contatti, da cui traggo ispirazione in molteplici modi. Come facciamo tutti. Come una scimmia da sola impazzisce, anche noi abbiamo tutti bisogno di comunità.
Quando ho pensato che avrei sospeso facebook, ho immaginato che mi sarei fatto un viaggio in Portogallo con mio figlio. “E se non posto una foto da lì, come faccio a trovare qualche conoscente nei paraggi?”, mi son chiesto. Il mio utilizzo di facebook è quello di una mappa di contatti sparsa per il mondo, dovunque vado posso trovare qualcuno. 5000 contatti sono molti, e la metà sono persone con cui ho avuto a che fare nella vita reale. Facebook sa tutto questo di me, sembra l’unico a tenerci. A tenere in vita le nostre relazioni, che altrimenti tornerebbero.. tornerebbero a cosa?
Come ci si sente a non sapere più mettersi in contatto? Cosa succede se si smette di comunicare giornalmente sui social? Per uno come me, 6 ore al giorno su Facebook sono una cosa normale, e sono certo che in molti, sotto sotto, agiamo così. Non lo ammettiamo a noi stessi, ma siamo dipendenti dal trillo di un messaggino. Quando vibra il telefono a volte mi sento vibrare anche io, tanta è la simbiosi tra me e quell’oggetto. E’ passato otre un decennio da “Dove sei? Ontologia del telefonino”, di Maurizio Ferraris (mio ex professore all’Università di Torino), in cui si delineava una metafisica buona per chi, come noi, è già oltre il corpo, tutt’uno con la propria identità digitale.

Non solo affetti però, c’è anche la ciccia, i soldi. Ad esempio in Cina si paga coi telefoni piuttosto che con la carta di credito, e la firma, che per Ferraris è il simbolo dell’oggetto sociale, e quindi della complessità del mondo riducibile a gesti concreti, è ora non più quella in banca sul modulo di contratto della carta di credito, bensì sull’atto di acquisto del telefono. E’ da quella firma, anche sotto forma di semplice registrazione online su una piattaforma digitale, che nasce la nostra identità virtuale. Che spesso non muore mai. Almeno fin quando le piattaforme non falliscono.
Le compagnie telefoniche, facebook e gli altri colossi, come la marca del computer su cui sto scrivendo, sono il vero sistema, nel vero senso della parola, quello che ci permette di comunicare. Quello in cui comunicando, imprechiamo contro il sistema per non darci scelta. I politici, i governanti vengono solo dopo, non per niente Trump è andato a Twitter, e non viceversa. Questo sistema, dal punto di vista ontologico, dell’essere, è estremamente valido per comunicare, e per esprimersi, però mostra delle defaillances quando vuole sostituire la realtà.
100 partecipanti al tuo evento fb? Di sicuro non verranno in più di 20. Like sulla foto di Natale? Non per questo la persona che ti ha messo il like ti saluterà per strada. Facebook riesce a rendere evidenti parecchi paradossi, in primis: siamo da soli davanti a una tastiera, e parliamo con altri altrettanto soli. Si va su Facebook per fare amicizia, per conoscersi, per ritrovarsi, e si finisce spesso per litigare, con tanto di minacce e insulti. Cosa sarebbe facebook se non ci fossero i razzisti contro immigrati, i vegani contro i carnivori, i romanisti contro i laziali? A differenza del mondo reale, dove i razzisti brontolano e menano le mani solo quando sono in gruppo, su facebook ognuno può diventare un “leone da tastiera”. Su facebook tutti i giorni si è circondati da “nemici”, oltre che da amici. Basti pensare che molti hanno messo il like alla pagina di Salvini in modo da poterlo insultare sulla sua pagina. Ognuno di noi ha tra i suoi contatti persone che in qualche modo disprezza, e dalle quali è ricambiato. In silenzio ci si osserva, a volte si sbrocca, ma soprattutto ci si spia. E tutti sanno i cazzi tuoi come tu sai i cazzi di tutti quelli che postano le loro faccende personali. C’è il fotografo stakanovista, il grillino poeta anti-casta, il regista non più di sinistra, il giornalista che critica tutti i giornalisti più famosi di lui, il moralista che ama l’integrazione, il fascista che cavalca l’indignazione. Ognuno dal suo piccolo podio, cerca ammirazione, un pubblico cui parlare. Se i circoli letterari sono inaccessibili, se le stanze del potere non sappiamo neanche dove trovarle, allora c’è facebook, lì tutti hanno la loro chance di celebrità, di potere.
La quantità di contatti, conversazioni quotidiane e commenti sulle bacheche e i profili di ognuno di noi supera forse perfino la quantità di parole che ci scambiamo dal vivo.

Non è questione – soltanto – di differenza tra reale e virtuale. C’è già stato Black mirror, e i sogni e gli incubi di ognuno di noi sono stati narrati egregiamente da quella serie tv. Tutti sappiamo fin che profondità può raggiungere un’amicizia virtuale. Quanti amori sono nati su Fb? E violenza, manifestazioni, eventi, tutto ha ormai la possibilità di andare in modalità LIVE.

“Live” significa dal vivo, come “to live” significa vivere, è uno di quegli shortcut (appunto!) che l’inglese ci presenta per darci delle opzioni. Nel caso di un giornalista freelance senza un contratto, l’opzione è una: essere “live”, o almeno, essere online.

Scegliere, nel 2017, di andare offline, anche solo su facebook, ha delle implicazioni.
Ci impiego 10 minuti a trovare una penna, mentre una volta scrivevo sempre in un taccuino. Cosa farò una volta offline? “Secondo me dovresti smettere gradualmente”, mi suggerisce un amico, come se si trattasse di smettere di fumare. Altri credono che chiudendo il mio profilo io abbandoni anche TerminiTv, il canale online che ho fondato 2 anni fa, e i cui quasi 9000 like sono stati molto duramente sudati. No, ovviamente TerminiTv resterà anche su Facebook, anche se non sarò io a gestirlo. C’è poi chi pensa, tra quelli che mi conoscono meglio, che io abbandoni facebook per via dell’insuccesso del mio primo crowdfunding, insomma una specie di “Mi si nota di più se vengo, o se non vengo?” Sì, è abbastanza vero, e infatti ho annunciato questa dipartita da Facebook pubblicamente, in modo da farmi notare, e far parlare della campagna. Cosa che non si è verificata per ovvi motivi. Avrei dovuto scrivere: “Se non donate al mio crowdfunding, mi cancello da facebook”. Almeno avrebbe fatto più notizia, avrebbe creato suspense. Invece questo annuncio in sordina: “me ne vado da facebook”, durante la campagna di crowdfunding ha dato l’idea di una sconfitta. “Ma perché lo fai, che è successo?”
Uscire da facebook sembra quasi lasciare una festa, “ma già te ne vai?”, o meglio, è come lasciare l’isola che non c’è, dove si resta tutti bambini, o almeno giovani e belli, sulle foto del profilo. Un’isola bellissima, tutta da esplorare, ma a volte ci si dimentica che è solo una piccola isola in mezzo a un oceano. Ed è giunta l’ora, dopo l’ennesima sbornia egotica e questa sfilza di “io”, di mettere insieme i tasselli, e costruire una narrazione che non ha bisogno di like, di commenti o donazioni per essere valida. E’ arrivato il momento per me di smettere di autopromuovermi e puntare solamente all’unico risultato che ha un senso: creare qualcosa che viva di vita propria, senza aumentare vanità ed egocentrismo.
“Ma avere fatto in luogo di non avere fatto

questa non è vanità

Avere, con discrezione, bussato

Perché un Blunt aprisse

Aver raccolto dal vento una tradizione viva

o da un bellocchio antico la fiamma inviolata

Questa non è vanità.

Qui l’errore è in ciò che non si è fatto, nella diffidenza che fece esitare”

(Ezra Pound)

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