Benessere

I peggiori anni della nostra vita ossia Non restare chiuso qui, pensiero

10 Agosto 2023

Guardando ciò che succede intorno a noi spesso non mi rendo conto se sia realtà o finzione. È scherzo od è follia? Un Truman Show?

Vengo e mi spiego. Da ogni lato ci giungono sollecitazioni sensoriali, soprattutto mediatiche, perché siamo inondati dai media fino alla nausea, tra televisioni, stampa e reti sociali, dove ogni utente contribuisce a crearsi la propria realtà fatta di ingiurie, di scoperte sensazionali come l’acqua calda, di una revisione della Storia secondo il proprio uso e consumo che diventa dogma assoluto e indiscutibile, nonostante le prove concrete e le testimonianze degli ultimi sopravvissuti a tragedie epocali siano talmente tante che ci travolgono e ci immettono in una dimensione altra.

Da una parte c’è chi senza questa dimensione crede di non poter esistere, e si è visto, purtroppo, durante la pandemia, quando la tribuna domestica elevata a centro del mondo era l’unica dimensione possibile consentita. Dall’altra ci sono pochissimi che la rifiutano e cercano di mantenere una posizione critica a tutto ciò che questa dimensione mediatica propina.

Ora, non tutto ciò che viene diffuso mediaticamente ha lo stesso valore, certo. Ciò che non viene filtrato è l’essenza dell’informazione che viene proposta. In genere oggi, almeno nel nostro Paese, l’informazione e l’intrattenimento sono legati al vagheggiamento di un passato, lontano o recente poco importa, ma che ha segnato l’unico momento di vera novità che ha attraversato dopo la seconda guerra mondiale. Si tratta di un passato in cui era raccontato un boom economico che ha comunque prodotto delle creazioni, ha permeato il nostro Paese molto profondamente, maggiormente in quelle zone dove la comunicazione era più facile, come le metropoli, soprattutto del Nord, giungendo spesso con meno forza nelle zone periferiche della penisola.

Questo passato di crescita ha significato per l’Italia un momento in cui economia, cultura, scienza, creatività attraversarono un periodo per certi versi assai brillante e il Paese, nell’immaginario collettivo, nazionale e internazionale, si è un po’ fossilizzato intorno alla Dolce Vita, alle canzoni dell’epoca, agli oggetti, le fibre sintetiche, il design, il cibo, il cinema, eccetera. Una delle cose dimenticate è stata la letteratura di quegli anni ma la letteratura sembra, oggi, non interessare più a nessuno, relegata allo stato di orpello inutile. C’era pure un boom demografico, generato probabilmente dalla fiducia in un futuro che, se da un lato appariva incerto perché sempre l’incubo della guerra fredda era una presenza costante, dall’altro invogliava a credervi per via di una serie di servizi e invenzioni mai avuti prima, come una tecnologia domestica più facilmente disponibile, proveniente dagli Stati Uniti, i veri vincitori della guerra, che però si portava dietro un’immane mole di rifiuti, senza considerare che questi rifiuti sarebbero rimasti sempre a farci compagnia sul pianeta.

Avere lavatrice, lavapiatti, ferro da stiro, cucina elettrica, condizionatore, automobili che consumavano un litro di benzina a chilometro, quando ancora la benzina costava niente o quasi, LA TELEVISIONE! , tutti gli elettrodomestici, insomma, era sintomo di benessere, e questo benessere sembrava si potesse comprare abbastanza facilmente. Magari andando a lavorare al Nord o all’estero per fare fortuna, visto il disastro postbellico lasciatoci dalle distruzioni e dai bombardamenti, che non avevano devastato solamente le città ma anche, e profondamente, le loro società. Però questa sicurezza (e urgenza) di una ricostruzione alimentava la fiducia in un futuro.

Certo, c’erano cervelloni a disposizione in quel periodo d’oro. Intellettuali, scrittori, registi, musicisti, designer, ingegneri, artisti, gente che inventava, che prendeva il passato e lo interpretava per capire dove si stesse andando, che è esattamente ciò che manca oggi.

La pigrizia mentale che affligge la nostra società, oltre che una disperazione per avere una classe politica sempre uguale a sé stessa, inetta, insufficiente, legata a un passato ancora più remoto che ha causato la devastazione del Paese, immarcescibile, che non riesce a far dire la parola antifascista a nessuno degli esponenti di questo governo di pupazzi inutili, è anche una sorta di rassegnazione.

Ci si rifugia così nel vagheggiare un passato brillante, e si perpetuano soporifere trasmissioni televisive come I migliori anni, o cori dove si cantano le canzoni degli anni 60 e 70, invitando gli ormai quasi centenari artisti di quell’epoca che cercano di non steccare a causa dell’età avanzata che non consente un controllo del fiato e della voce come potevano averlo cinquant’anni prima. I migliori anni sono passati, non c’è dubbio, ma si dovrebbe sempre guardare avanti. Per carità, io sono uno di quelli che ricicla tutto, mi piacciono i mobili antichi o anche solo vecchi, mi piace dare una seconda possibilità anche agli oggetti, magari ricomponendoli in modo che raccontino una storia, mi piacciono le memorie, mi piacciono i sapori di un tempo, anch’io mi rifugio spesso in dolci ricordi. Ma cerco di guardare avanti, e mi sono adeguato nell’usare la tecnologia, uso un programma di videoscrittura, il telefono mobile, faccio la spesa online, eccetera. Soprattutto ho il privilegio di poter leggere i giornali stranieri e studi fatti altrove in tempo reale, senza dover necessariamente viaggiare per andare alla biblioteca di Parigi o di Londra. Così come posso far conoscere in tempo reale ciò che scrivo in ogni lato del pianeta. Questo è uno dei grandi, e non pochi, privilegi della modernità.

Tutto ciò s’innesta, nel mio caso, a una mia personale consapevolezza della Storia e del tempo, cosa che mi accorgo sembra mancare alla maggior parte della gente, che invece vagheggia e corteggia il passato perché non riesce a decifrare il presente (cosa che capita a volte anche a me) e tanto meno il futuro.

Per questo molta gente poi alla fine vota per i Fratelli d’Italia o Forza Italia o Italia viva, perché intravede un ancoraggio a quel passato con qualche spruzzatina di novità, i lustrini e le cosce delle ballerine che un tempo non si vedevano, men che mai alla RAI, sdoganate come “libertà” dal cavalierissimo sulle sue reti, per far colpo. Né il rignanese è poi così diverso nella sostanza, tant’è che s’intendeva bene colla buonanima dell’ex cavaliere. Il nome Italia nel blasone del partito è studiato apposta, per cercare di fare identificare gli elettori in qualcosa che è ormai un’espressione vuota, un contenitore come un cofanetto di caramelle Sperlari senza le caramelle.

I migliori anni sono, proustianamente, quelli perduti, perché almeno si sa di cosa erano fatti. Cosa ci attende, con spettri di cataclismi climatici, guerre mondiali, migrazioni incontrollate, è considerato troppo triste per potersene occupare. Meglio far finta di nulla e continuare in questa celebrazione del passato, ma fatta, appunto, in maniera sterile: senza fare un passo verso la modernità o, piuttosto, fare dei passi sbagliati per troppa modernità, come opere ciclopiche e di dubbia utilità sullo Stretto di Messina.

Naturalmente questo passato che si concentra in slogan ormai logori ma, nella testa di chi li urla, sempre da imporre (Dio, Patria e Famiglia, solo per fare un esempio) su tutti i cittadini, cozza coll’ovvia evoluzione della società verso altri lidi che sono assai distanti da quelli dello slogan in questione. E il risultato è proprio questo scollamento dalla realtà che caratterizza ogni azione dell’attuale governo che più che uno sviluppo sta causando una regressione a tutti i livelli. E una grande rabbia nella gente. Proprio per non volersi scrollare di dosso un passato ormai obsoleto. C’è un passato nobile, grandioso, costituito dai resti archeologici e dai monumenti, in pietra e nelle lettere o nella musica o nella scienza, che delle persone hanno eretto a futura memoria, ma non è quello di riferimento di questa classe politica che però lo usa a sproposito per scopi di puro consumo, vedi la ministra del turismo e i suoi valvassori e valvassini, che non capiscono una minchia fritta di nulla come evidenziato dalla campagna pubblicitaria “Open to meraviglia”, costata un’enormità e piena di errori marchiani. L’ho già evidenziato in più articoli in passato su questo giornale.

O, altro esempio, i colori della bandiera italiana e il loro significato, ignorato dal presidente del consiglio Meloni che non ha saputo nemmeno rispondere al quesito mentre era in visita ufficiale a Washington (che figuraccia!), proprio colei che codesti colori ha voluto mantenere nella fiamma tricolore che campeggia nel blasone del suo partito Fratelli d’Italia. Manco quello sanno, che vergogna. Io ricordo che a scuola elementare, e parlo dei primi anni Sessanta, in un contesto che si rifaceva comunque a una visione del Risorgimento ufficiale e non critica, ci facevano cantare le canzoni come Addio, mia bella, addio (!) e La bandiera tricolore, appunto. Il signor Meloni è troppo giovane, evidentemente, e ignorante.

Vi ricordate, d’altro canto, qualcosa di notevole lasciato in eredità ai posteri da parte dei governi Berlusconi o altri? Qualche opera pubblica, intendo.

Berlusconi ha solo magnificato l’effimero, senza che ne restasse traccia tangibile, non una biblioteca, non un teatro, non una città della scienza come a Parigi, ma nemmeno un parco di divertimenti, arrivo a dire. Meno che mai poi, parchi naturali. Non un polo ospedaliero pubblico nazionale all’avanguardia, non scuole pubbliche innovative. Solamente tette e culi televisivi e cene di rara eleganza a casa sua. E riforme dell’istruzione sempre peggiori delle precedenti e scempi edilizi e condoni. Anche gli altri non è che abbiano aggiunto molto, a dire il vero, sebbene qualcuno abbia cercato di rimediare ai danni perpetrati dall’allegra combriccola delle destre, non sempre riuscendoci e a volte facendo peggio.

Il fermarsi e assistere alle star di un tempo ricantare un’antica melodia con la voce rotta dall’età, traballante, spesso con qualche stecca imprevista ma prevedibile, sembra essere la cura imposta da una tv generalista sempre più povera di contenuti negli orari di maggior ascolto. Serve a ritrovare quel passato felice, quando tutti si era più giovani e con un corpo più leggero si ballavano quelle melodie nelle feste fatte in casa. I giovani di oggi questo, nel loro futuro rimembrare il passato, non ce l’avranno: i rap sono tutti uguali, i ritmi e i bordoni che li accompagnano sono intercambiabili e la tendenza attuale è una “musica” o una canzone sempre meno melodica e sempre più parlata o urlata, anche e soprattutto in lingue straniere: molti non hanno nemmeno idea di cosa significhino i versi e cercano di riprodurle storpiandole. Ovviamente, anche il rap viene dagli Stati Uniti, attuale vulcano di pessime idee e di molti fenomeni “artistici” ridicoli. Il rumore assordante dei nuovi autori è, per la maggior parte dei casi, l’interpretazione della realtà odierna, dicono. Il giovane di oggi è stordito dal rumore, dalla velocità, dalle droghe. Sarà. Sembrano le parole di Marinetti più di un secolo fa. Ma il grande Kurt Weill, inventore di melodie per i versi di Bertolt Brecht prima, autore di musical per Broadway dopo la sua fuga a New York, asseriva che senza melodia non ci poteva essere comunicazione. Nessuno può ricordare o fischiettare alcun brano di composizioni dodecafoniche o astratte come quelle della scuola di Darmstadt o affini. Alla fine della fiera la musica “classica” si è rifugiata nuovamente nella melodia, dopo i tentativi minimalisti che prendono un frammento di melodia e lo modificano armonicamente all’infinito, che però, dopo dieci minuti di giri armonici sempre instabili, di musiche per aeroporti o di Satyagraha, sono parecchio stufenti perché non approdano a nulla. Almeno la passacaglia, che pure era basata su un basso ostinato e una voce o uno strumento che vi ricamava sopra i suoi abbellimenti, dopo cinque minuti al massimo, risolveva. Philip Glass la porta a lunghezze esasperanti, ipnotiche, anche disturbanti, almeno per me. La scena di apertura della sua opera Satyagraha, appunto, dura circa mezzora ma sembra interminabile, e tutta l’opera, altrettanto interminabile, è pure cantata in sanscrito, certo trattava di Gandhi e il sanscrito per lui era pane quotidiano. Weill aveva ragione.

Trasportando metaforicamente il senso delle parole di Weill oggi in altri ambiti il vuoto attuale è dato proprio dall’assenza di grandi inventori di melodie. Che si può leggere come mancanza di autori di pensiero, d’ogni tipo: filosofico, politico, poetico. Manca una “melodia” che accenda la fantasia degli uomini e delle donne e che faccia immaginare un mondo diverso dall’attuale, governato invece dal consumismo. Anche le religioni o le sette, alla fine, sono basate sul consumo e i capi di queste sette sono ultramiliardari per i lasciti dei fedeli e per il sapiente marketing ai loro danni, inconsapevoli promoter di fandonie spacciate per verità.

Nel precedente articolo accennavo a Furio Jesi e ai suoi scritti sulla mitologia, che viene usata dal potere quando non ha niente da dire, per mantenerlo e tenere assoggettate le masse. Di mitologie ne abbiamo fin troppe, antiche e nuove, dall’epica antica, alla Bibbia, ai Signori degli Anelli, ai supereroi di Marvel. Vorrei qualcuno che con un suo Flauto Magico moderno sapesse riattivare un’idea di futuro, qualcuno che con una sua Sinfonia dei Mille offrisse un nuovo titanismo, non necessariamente mistico ma propositivo, una nuova band tipo Queen, che coniugavano tutti i linguaggi musicali insieme, anche in maniera kitsch, ma almeno era una via che lasciava immaginare cose diverse. Ovviamente sono metafore per una visione più ampia, non strettamente musicale, ma volevo usare la musica perché oggi è la manifestazione più pervasiva: c’è ovunque, nei supermercati, alla radio, alla televisione, per strada, negli aeroporti, nelle palestre, nelle portinerie, nei ristoranti. E spesso è perfino inopportuna perché anche il silenzio è necessario piuttosto che un rumore di fondo perpetuo e invadente, puoi fare il cieco ma prova a fare il sordo.

Non intravedo nuovi Pasolini, nuovi Jesi, nuovi Foucault, nuovi Kraus. Vedo solo lecchini del potere e pseudointellettuali, gente incapace di elaborare un vero pensiero e nemmeno rielaborarne un altro di precedenti mitologie. Gli psicofascisti sono semplicemente ridicoli. Anche il neo movimento ecologista si basa su rielaborazione di antiche mitologie, spesso, come tutte le mitologie, assolutamente irrazionali, e, oltre ad alcuni punti condivisibili, si perde inevitabilmente in una sorta di fede cieca che non lascia spazio a nient’altro che l’obbedienza inconfutabile alle linee dettate dagli spiriti guida (gli influencer).

Ma se la mitologia greca, per fare un esempio di un pensiero che è stato alla base di tutto ciò che poi è stato l’Occidente, nominava la natura e la conosceva bene, per l’epoca e per gli strumenti che avevano a disposizione gli antichi, e ordinava la realtà secondo criteri certamente primitivi ma dal forte valore simbolico (e il simbolo è talmente forte che ancora oggi, spesso, si usano gli stessi di tremila anni fa) oggi le nuove mitologie (e quindi i nuovi mitografi, o i loro ghost writer, e i nuovi seguaci) non hanno la più pallida idea delle connessioni infinite che tutto ha con tutto. Veleggiano in superficie, come Greta sul catamarano in Atlantico, senza andare al fondo delle cose, non riescono nemmeno a percepire che c’è qualcosa di più profondo oltre l’epidermide.

Per un pensiero nuovo ci vorrebbe il cervello, in realtà. E questo aspetta il bacio del principe della bella addormentata.

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