Benessere

Fine del lockdown: ci aspetta un tracollo psicologico collettivo?

19 Aprile 2020

No, dai, no. Non ci sarà nessun tracollo psicologico. Anche se i giornali non fanno che parlare di aumento dell’ansia, della depressione, sono a caccia di sintomi, e i lettori annuiscono quando leggono dei femminicidi in casa, pensando “Eh, sì, la gente sta impazzendo”; e pullulano i questionari, che chiedono se dormiamo male, se mangiamo troppo o troppo poco, che ci chiedono se abbiamo una bella vista dalla finestra e se abbiamo avuto paura. È certo che ci svegliamo di più la notte; certo che facciamo più incubi; certo che non sopportiamo più partner e figli e ci disperiamo all’idea che non riaprano le Scuole. La questione è un’altra: davvero di questo si occupa la Psicologia?

Sul Lancet è stata pubblicata una rapid review di 24 lavori scientifici sull’impatto psicologico della quarantena, che ha mostrato come alcuni fattori (stressor) abbiano impattato sulle persone durante la chiusura: durata della quarantena, paura dell’infezione, frustrazione e noia, mancanza di beni primari, informazioni inadeguate; e dopo la chiusura? Solo due: finance e stigma. E che dire di quello che vivranno i bambini, privati del loro ambiente usuale, delle loro routine, e obbligati ad annoiarsi a casa? Anche in questo caso, pare che l’ottimismo prevalga: Unicef ha lanciato un’iniziativa che invita a ripensare il ruolo dei videogiochi e del mondo online per i bambini, dichiarandone l’importanza per la socializzazione e l’intrattenimento.

Non ci sarà nessun tracollo psicologico, dunque. Sì, chi stava male già prima, probabilmente, starà peggio; ma non perché la sua psiche sarà più fragile per via del lockdown, come se i nostri apparati psichici si afflosciassero come muscoli poco allenati; piuttosto, perché probabilmente sarà cambiato molto del mondo là fuori, e non è detto che, una volta riaperto tutto, ciascuno di noi possa tornare alla vita di prima.

Secondo il Fondo Monetario Internazionale, l’Italia sarà il Paese che soffrirà più della crisi post-pandemia, con una caduta del PIL fino al 9.1%, e il tasso di disoccupazione potrebbe arrivare al 12.7%, aggravando una situazione già non troppo fausta. Anche la fiducia nel prossimo, che era scarsa prima del lockdown, potrebbe ulteriormente diminuire; per non parlare del livello di disordine sociale, ora che verrà richiesto a tutti di rispettare – in fondo – poche regole di buon senso, sarà curioso vedere se gli Italiani vireranno verso un inaspettato senso civico o prediligeranno la consueta via pre-anarcoide. Aumenteranno le disuguaglianze, legate alla povertà e al genere, sottolinea Oxfam.

Il mondo che verrà non sarà semplice, ma per molte e molti di noi le cose torneranno a posto, senza alcun timor panico a sorprenderci a mezzogiorno. E questo è un peccato, perché se si torna al t con zero, al momento precedente la pandemia, significa perdere una straordinaria occasione di cambiamento (senza tener conto del dato di realtà per cui è proprio quello stato di cose ad aver generato in parte la pandemia stessa), e questo vale per tutti: anche per gli psicologi.

Quando nelle Università tengo seminari sulla professione psicologica, davanti a me trovo spesso un fronte compattissimo di colleghe e colleghi che spesso hanno giurato fedeltà all’esistente, alle strutture sociali che ingabbiano la professione psicologica in ciò che è ed è stata. Secondo questa visione la Psicologia serve a garantire il benessere delle persone, dei gruppi e delle comunità, e fin qui tutto bene; ma quando ci si interroga sul come? ecco aprirsi uno scenario desolante: EMDR, riabilitazione neurocognitiva, terapia familiare, ossia tecniche, dispositivi efficaci, ma del tutto inutili in assenza di una postura critica, impegnata nell’analisi del sistema che quel benessere lo ha sottratto, agli individui, ai gruppi, alle comunità.

Christopher Lasch, ne L’Io minimo, descrive una Psicologia organica all’impianto neo-liberista, quello stesso che produce alienazione e disagio; e, dice, la Psicologia cura chi non vuole star dentro, chi ritiene che sia assurdo lavorare così tanto per così poco, chi pensa che sia ingiusto che senza raccomandazione non si vinca un concorso che sia uno. Se Marco fa la scimmia impazzita in classe, la colpa è sua e del suo ADHD, non della totale impreparazione di molti insegnanti di fronte alle generazioni attuali. Questo rischia di diventare il benessere psicologico: «Non pensarci, e trova un tuo senso personale in ciò che fai, il mondo è ingiusto, l’ingiustizia abita nell’uomo, non puoi farci nulla».

In conclusione. In Italia ha sede un terzo degli psicologi di tutta Europa. E, sensatamente, vogliono poter lavorare: in ospedale e nello studio, prevalentemente, perché quando hanno iniziato a studiare questo si immaginavano, e cambiare idea del tutto sembra un fallimento. La situazione attuale apre la straordinaria opportunità di poter far ammettere alle persone, finalmente, che hanno un disagio, che stanno male, che hanno bisogno di una terapia. E se fosse, invece, la Psicologia a cambiare? Se fosse la Psicologia a dotarsi di strumenti culturali e tecnici per entrare nei gangli dei processi decisionali? Elisabetta Camussi, che fa parte della task force economico-sociale, è psicologa; è lì per introdurre un principio trasformativo, non per garantire l’esistente. Simona Sacchi sta portando avanti una ricerca internazionale perché ritiene che il virus possa ricostruire i confini dell’umano. L’Ordine degli Psicologi della Lombardia, lo scorso anno, ha realizzato un progetto di Psicologia territoriale e di rete a Milano, a fianco dei cittadini ma anche (e soprattutto) delle istituzioni, che sono le più restie a cambiare. Non ci sarà più disagio psichico di cui occuparsi, ma di un mondo che rischia di diventare più ingiusto e diseguale: la Psicologia da che parte starà?

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