Benessere

Come trasformare un resto in bagaglio a mano

2 Luglio 2020

“Non ci sarà mai notte così lunga

da impedire al nuovo sole di sorgere”

 

Dopo la seconda operazione neurochirurgica successiva al grave incidente del 19 giugno, Alex Zanardi è in “condizioni cliniche stazionarie e con un decorso stabile dal punto di vista neurologico, il cui quadro rimane grave”. Ogni giorno mi informo sulle sue condizioni di salute. Leggo del campione della resilienza, di chi ha fatto dello sport un modo per educare la mente, il cuore, la volontà di disciplinare forza e istinto.

Ripenso a quest’anno.

Ripenso a quanto è importante parlare di dolore. L’anno scorso, durante la maturità, ho incontrato la figlia del mio professore universitario. Ne tratteggiavo il volto con i miei ricordi di studentessa, mentre lei mi parlava di un padre e un nonno affettuoso.

Quest’anno ho perso tanto: affetti familiari, due alunni – al cui funerale straziante erano presenti studenti di varie classi – e, come se non bastasse, infine il covid. Con le tante immagini che hanno riempito gli schermi, la morte ce l’hanno servita in casa, a tavola, saziando lo stomaco con un misto di orrore e pietà. Non è servito il malox a lenire il dolore. Ha dovuto fare il suo corso, lento, inesorabile.

La morte è parte della vita e anche in una scuola è giusto che se ne parli.

Ci sono istanti in cui pensi che tutto sia incubo, risali a galla, poi il dolore torna, come una voragine. La perdita di chi ci è caro è sempre un’amputazione, si è monchi quando qualcuno ci manca. Naufraghi e consapevoli che le parole di consolazione spesso sono prive di senso, a volte entri in una stanza in cui il vortice ti risucchia. Ci sono buchi, mancano le tessere per completare il puzzle. Non si riesce a fare le cose più elementari: cucinare e fare la spesa ad esempio. Elaborare un lutto è un’operazione psichica lunga e complessa, non serve ripetersi che la vita deve continuare, la forza di volontà c’entra in parte, è come per la malattia, non basta volerlo.

Inizialmente tutto sembra un pozzo senza fondo, ci vuole la cura giusta. Non si tratta solo di fare i conti con la realtà riconoscendo ciò che si è perso, ma anche di accettare la fine della promessa di tutto ciò che si sarebbe potuto o voluto vivere con chi non c’è più. Poi il dolore cambia, il tempo, pietoso, lenisce. Il rantolo diviene sospiro.  Si trova un equilibrio tra dolore e accettazione.

Pensi al piccolo principe, quello che con la sua spada si staglia nel cielo, quello con le stelle gialle e il manto rosso e verde. Quello con il pianeta giallo in fondo a destra. Lui lo uccide il mostro che si aggira nel tuo cuore vuoto. La solitudine e il silenzio si diradano, cerchi di trovare in te stesso la soluzione.

Bisogna fare i conti che nella vita si incontra anche la tragedia, che non c’è sempre ricompensa per gli sforzi fatti, che la giustizia è un accidente.  La morte, che si tratti di una giovane vita recisa o di una persona anziana, ci trova sempre impreparati. Quando si chiede di familiarizzare con questo pensiero è come se si chiedesse a un candidato di preparare un esame cui non si presenterà mai perché il pensiero della morte non ha nulla da spartire con l’esperienza della morte.

É un appuntamento per cui non puoi fissare il giorno. Solitamente, invece, siamo abituati a fissare, catalogare, selezionare, scandire date come per l’inizio dell’anno scolastico, per gli orari dei treni, per il pagamento dell’acconto delle imposte. Non c’è preparazione che ci consentirà la dipartita nelle migliori condizioni. Non è come quando, all’apprestarsi di un esame, i candidati si dedicano più seriamente alle materie di studio o la squadra si rinchiude negli spogliatoi per aumentare il livello di concentrazioni o di aggressività.

Cosa rimane, allora, quando i nostri cari si allontanano? Cosa resta? Un luogo arido, oscuro, freddo, una landa deserta e solitaria, entro cui nessuno riesce a sentirsi libero e al sicuro, come nella terra desolata di Eliot?

Certo, la parola “resto” non sempre evoca concetti gradevoli: si pensi a quando si afferma che della bellezza di una donna restano solo i ricordi, lasciamo intendere che ha perduto lo splendore di un tempo. Se in una successione testamentaria ci lamentiamo per aver ereditato solo i resti, facciamo capire che siamo i perdenti in una suddivisione poco equa. La nozione di resto in questo caso si riferirebbe alle briciole, a ciò che non ha valore, a cose che guardiamo distrattamente, la cui scomparsa importa poco e che si potrebbe facilmente eliminare.

Eppure, in ebraico il verbo parlare ha la stessa radice del termine deserto, come se la parola scaturisse dal deserto, dal silenzio. Non possono esistere parole senza silenzio, né esistono parole senza ascolto. Basta mettersi in ascolto di chi è andato via per dare un senso a ciò che resta. Bisogna recuperare le tracce come fa il contadino quando disegna solchi su un terreno per renderlo fertile.

Ci soffermiamo a osservare laddove gli uomini del passato hanno saputo dare vita a una cultura ricchissima, esiste una poesia romantica delle rovine, proviamo una malinconia che non ha nulla di spiacevole. Come Chateaubriand, siamo testimoni privilegiati di questa debolezza del tempo. Una Roma solo haussmaniana, del resto, non avrebbe ragione di esistere.

 

 

 

 

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