Benessere
Come lo smart working ha contribuito alla mia felicità
Ho 34 anni. Lavoro da quando ne ho 25. In questi primi 8-9 anni di attività professionale, ho quasi sempre lavorato in modalità smart. Questo “privilegio” è stato fondamentale per donarmi quella elasticità e tranquillità grazie alla quale poter vivere il mio lavoro in modo sereno, spensierato, direi soprattutto fisiologico. Insomma, senza lo smart working sarei oggi una persona molto meno felice.
Il mio smart working
Dopo una laurea magistrale in Scienze Politiche, ho subito iniziato il mio primo lavoro: un dottorato in Scienza della Politica. Il lavoro del dottorando è molto semplice: per 3 anni si deve lavorare a un progetto di ricerca. Non c’è nessun cartellino da timbrare. Si hanno questi 3 anni di tempo a disposizione per ultimare il proprio lavoro. Con varie differenze in base al proprio dipartimento universitario, non si entra quasi mai in contatto con la classica dinamica lavorativa “lunedì-venerdì dalle 9 alle 18, con un’ora di pausa pranzo”. Nulla di tutto questo. Si può scegliere con molta elasticità quando e dove lavorare: nel proprio ufficio all’università, in una o più biblioteche, da casa, in un bar, in un parco di provincia, in un chiosco in riva al mare. Dovunque.
Smart working = elevata produttività
Attenzione, questo non significa che il lavoro del dottorando sia un lavoro leggero, tutt’altro! Sono purtroppo tantissimi i casi di giovani dottorandi che hanno sviluppato vari disturbi psicologici proprio durante questi 3 anni di lavoro. È un lavoro duro. Come tanti altri lavori. E qui arriva lo smart working. Essendo potenzialmente svincolato da un unico luogo fisico, questa durezza può essere lenita da un’elasticità di orario e sede di lavoro che molto spesso rappresenta proprio quella boccata d’aria fresca attraverso la quale vivere la propria professione senza un inutile stress aggiuntivo. Insomma, si può tranquillamente lavorare dalle 14 alle 23, o persino dalle 17 alle 3 di notte. Nulla di male, anzi. Ho molti colleghi che sono maggiormente produttivi dalle 23 alle 3 di notte e guai se dovessero lavorare 9-18: avrebbero avuto bisogno del doppio del tempo per chiudere il loro progetto di ricerca! La questione quindi è molto semplice: flessibilità e adattamento alle esigenze personali del singolo lavoratore = elevata produttività, quindi smart working = elevata produttività.
Lo smart working e la libertà di movimento
Questa estrema flessibilità ha anche avuto un ulteriore merito. Mi ha donato un’estrema libertà di movimento. Sia durante il mio dottorato, sia durante i progetti di ricerca su cui ho lavorato nei seguenti 5 anni, ho avuto modo di vivere in tante città e paesi differenti: Firenze, Barcellona, Francoforte, Terni, Bologna, Treviso. Insomma, smart working ha significato contaminazioni culturali, conoscenza di stili di vita e tradizioni differenti dalle mie, quindi apertura mentale. Per un breve periodo, il mio smart working è anche stato sinonimo di “south working”. Ossia lavorare dal sud. Forse l’unico modo per fare in modo che il Meridione italiano non resti un luogo dal quale partire, ma dove costruirsi un futuro.
Lo smart working e la crescita di coppia
Nel mio caso lo smart working ha anche significato possibilità di conciliare al meglio la mia crescita professionale con quella di mia moglie. È stato proprio grazie all’elasticità fornita dallo smart working che siamo riusciti ad andare avanti nei nostri rispettivi lavori. Insieme. Senza che la carriera di uno significasse l’impossibilità di fare carriera per l’altro. Insomma, senza lo smart working uno di noi due avrebbe dovuto rinunciare ai propri sogni professionali. Forse avrebbe proprio dovuto cambiare lavoro. Forse questo avrebbe creato tensioni molto forti nella nostra coppia. Insomma, senza lo smart working la nostra relazione di coppia sarebbe sicuramente stata molto più burrascosa, tesa e foriera di (inutili ed evitabili) stress, scontento e malumori.
I “lati oscuri” dello smart working
Ovviamente lo smart working ha anche i suoi lati oscuri. Poter lavorare in ogni luogo e a ogni ora porta con sé il rischio di lavorare troppo, per non dire sempre. Il rischio è che non ci siano più domeniche o sabati sera. Di ritrovarsi sempre davanti al computer per rispettare la scadenza di turno. Ci vuole tempo per adattarsi. Ma dopo un po’ si capisce molto bene che non ha alcun senso passare 12-14 ore al giorno davanti a un file Word, SPSS, R o Excel. Come si impara che un collega che manda costantemente le email il sabato sera alle 19 con richiesta di risposta immediata è semplicemente un pessimo collega. All’inizio si risponde in tempo reale, poi si capisce che quella email dovrà essere letta e inviata non prima del lunedì seguente alle ore 9.
Smart working = felicità
Al netto della mia esperienza e il mio personale approccio al mondo del lavoro, credo che la questione in fondo sia molto semplice: lavoriamo per vivere oppure viviamo per lavorare? Per noi amanti della prima opzione, beh, diviene oggi un abominio non garantire modalità di lavoro smart a chi svolge una professione dove questo è possibile. A me (e alla mia famiglia) ha cambiato la vita. Migliorandola. Posso dire con certezza che lo smart working ha contributo alla mia felicità. Ma il mio è sempre stato un privilegio. Perché tra i miei conoscenti sono sempre stati pochissimi quelli a cui era concessa la mia flessibilità. Almeno fino all’esplosione di questa pandemia e al relativo lockdown. Il mio privilegio è iniziato a divenire condiviso. E tanti hanno iniziato a vederne i pregi e i (pochi) difetti. Ecco, facciamo in modo che questo (a oggi) privilegio per pochi non torni a essere tale. Perché per quelle professioni dove lo smart working è facilmente realizzabile, ma si sceglie comunque di non permetterlo, si decide deliberatamente di mutilare la felicità di una persona. E dei suoi affetti più cari. E questo è intollerabile.
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