Benessere

Casartelli (Avis Milano): «10000 sacche di sangue in meno, ma ripartiremo»

30 Marzo 2021

Avis Milano è L’associazione dei Volontari di Sangue, nasce nel 1927 dall’intuizione di un medico, il dottor Vittorio Formentano, che comprese il valore di sviluppare un’offerta di sangue libera, volontaria e gratuita. Oggi sono circa 1.600.000 i soci, distribuiti in più di  3.000 sedi sparse sul territorio, che offrono un contributo di circa 2 milioni di donazioni all’anno. Insieme a Sergio Casartelli, in Avis da più di 20 anni, prima come Presidente, ora come Direttore Generale di Avis Milano, cerchiamo di capire perché Milano è sempre in urgenza sacche di sangue, come è cambiata la situazione durante la pandemia e come si può sostenere Avis per aiutare chi ogni giorno rischia la vita per mancanza di sangue.

Iniziamo con un quadro generale sulla situazione odierna in merito alle necessità di sacche di sangue e alle effettive donazioni.

Le necessità di sangue sono importanti in un Paese come l’Italia che si trova al limite dell’autosufficienza e che rimane sotto il livello del 30-40% della copertura per il fabbisogno di plasma. La raccolta di plasma è importantissima, perché serve per ottenere i derivati necessari per le situazioni più gravi, come trapianti di organi, emergenze da pronto soccorso, problemi oncologici etc.

Inoltre, pur trovandoci in una situazione di autosufficienza di sangue, dobbiamo fare i conti con la compatibilità del gruppo sanguineo. Spesso ci troviamo con scorte purtroppo non utilizzabili, mentre mancano quelle necessarie per mancanza di compatibilità. In Italia e in Europa si stima che per fasce di età e per malattie il 50% potrebbe essere idoneo alla donazione. In Italia ci sono circa 60 milioni di abitanti, 30 milioni potrebbero essere donatori. Oggi purtroppo i donatori sono solamente 2 milioni, è chiaro che qualcosa non funziona. Riduciamo il perimetro e parliamo della città di Milano, la situazione non cambia. Un milione e trecentomila abitanti circa, sei-settecentomila potenziali donatori, ma solamente cinquantamila donatori effettivi. La situazione aggrava la statistica, se consideriamo che parte di questi non sono cittadini milanesi, ma persone che risiedono solo temporaneamente nella città, per motivi di studio o di lavoro. Si stima infatti che siano circa 3 milioni le persone che frequentano il capoluogo lombardo, naturalmente nel periodo non afflitto dal Covid.

Come è cambiato il quadro da quando è iniziata la pandemia? 

E’ cambiato in maniera radicale, soprattutto a Milano. Da marzo 2020, dall’inizio del primo lokdown, le nostre unità mobili, solitamente usate per raggiungere aziende, scuole, comunità varie, sono rimaste nel cortile della nostra sede. Un danno che non si limita alla riduzione delle sacche raccolte, ma infierisce anche sulla capacità di sviluppare il concetto della promozione alla donazione, soprattutto nelle scuole. Le scuole sono importanti, perchè gli studenti maggiorenni sono potenziali donatori, che nell’anno successivo lasciano il posto a studenti più giovani, che aumentano il bacino utile. Nelle aziende il riciclo di persone è più limitato e di conseguenza il lavoro di promozione diventa meno efficace. Nel periodo Covid molti diciottenni non hanno beneficiato di questa promozione, volta a diffondere la cultura della donazione di sangue. Poi nei vari lockdown soprattutto nel primo, le persone avevano grandi difficoltà ad uscire dalle proprie abitazioni, per le conosciute restrizioni e spesso per timore di spostarsi con i mezzi pubblici e di frequentare ambienti affollati. Per la donazione era consentito spostarsi, ma la paura di muoversi e di recarsi in ambienti sanitari, pur sicuri, ha generato molte defezioni. Tre aree quindi che ci hanno visti penalizzati: le aziende e le scuole che non hanno ospitato le unità mobili e le molte assenze dovute a timori nella nostra sede. Si sono perse complessivamente nell’anno 2020 circa 10.000 sacche di sangue, nella sola città di Milano.

Sì è molto parlato della cura con il plasma iperimmune, come procedono gli studi? Si sta effettivamente portando avanti la ricerca e ci sono dei risultati che facciano pensare a questa come a una possibile cura?

Non essendo un medico, non sono la persona più indicata a rispondere, posso solamente riferire del rapporto e di tutte le attività di ricerca che Avis sta svolgendo insieme all’Università Statale di Milano. Esistono due scuole di pensiero: quelli che vedono nel plasma un mezzo miracolo e quelli che sostengono che il plasma non serve, non funziona e addirittura potrebbe essere rischioso. Gli studi sono in corso, conosciamo ancora troppo poco, ma da quanto sono in grado di percepire, vanno considerati due fattori. Il momento in cui viene trasfuso il plasma iperimmune al paziente è fondamentale e dovrebbe avvenire entro un certo decorso della malattia, altrimenti diventa inutile e potenzialmente pericoloso. Il secondo aspetto, di recente discussione, è la corretta donazione del plasma da parte di un paziente che è stato malato di Covid, chiamiamolo “base” per semplicità, a un paziente invece afflitto da Covid con variante inglese, sud americana o africana. Il plasma ricco di anticorpi specifici va destinato correttamente a un ricevente, che necessità degli stessi anticorpi. Questa la difficoltà. La ricerca in questo campo sta ancora compiendo i primi passi.

Purtroppo abbiamo visto i limiti della sanità lombarda nella gestione della pandemia. L’emergenza di sacche di sangue è dovuta solo a un calo delle donazioni o è in parte determinata da una scorretta gestione delle risorse in campo?

Voglio essere positivo, il calo delle donazioni è dovuto alle motivazioni che ho descritto prima. Oltre alle costrizioni, alla paura di muoversi, alle unità mobili ferme, lo smart working e la DAD hanno tolto tempo alle persone, che non sono venute a donare. Vorrei fermarmi qui nel descrivere le cause del forte calo delle donazioni nell’anno 2020.

Il comune cittadino può diventare donatore, ma Avis collabora anche con le aziende, come può un’impresa sostenere Avis?

Questa è una domanda importante, grazie di avermela posta. Noi andiamo nelle scuole a fare promozione, cercando di trasmettere un po’ di cultura sociale, cominciando dai giovani studenti che poi andranno all’università ed entreranno nel mondo del lavoro. Questi concetti di cultura sociale difficilmente sono assimilabili nel poco tempo che abbiamo a disposizione, che spesso si riduce a una lezione di un’ora. I concetti vanno coltivati ancora prima nella scuola stessa, nella famiglia e nel mondo del lavoro. Gli imprenditori, i manager hanno come obiettivo principale quello di far crescere la propria impresa, non possono e non dovrebbero dimenticare che hanno anche in parte il compito di provvedere alla crescita culturale e sociale dei propri dipendenti e collaboratori. I forti momenti di aggregazione sociale sono principalmente le scuole e le aziende. La donazione di sangue è fantastica da questo punto di vista: si tratta di un’azione semplice, di grande altruismo, i cui effetti ritornano al donatore e ai propri famigliari in caso di necessità.

La circolarità è un concetto di moda, ecco applichiamolo anche nella donazione di sangue. Oggi devo donare, perchè qualcuno ha bisogno del mio sangue, domani potrei essere io, o i miei familiari, a trovarmi nella stessa situazione. Senza questo bene prezioso, la sanità non potrebbe esistere così com’è. Dove si verifica un intervento chirurgico, un’urgenza, un trapianto di organi, una malattia cronica, non potrebbe esserci cura, senza le sacche di sangue. Pensiamo ad un imprenditore o ad un lavoratore che vive in famiglia con una persona talassemica, questo famigliare ha bisogno di due, tre sacche di sangue ogni 15 giorni. Il fatto di averle fa la differenza tra restare in vita oppure no. Nessuno sceglie di avere un figlio talassemico o afflitto da altra patologia, che necessità di continue trasfusioni.

La vita è un bene di tutti, la cura deve essere garantita a tutti, lo recita anche la nostra costituzione, la cura però nasce dalla disponibilità del sangue e degli organi, per gran parte delle persone che si devono curare. Questo è il problema di fondo, quando ci rechiamo nelle aziende chiediamo, non solo di ospitare l’unità mobile nei propri spazi, ma di trasferire insieme a noi una maggiore cultura sociale per rendere una società migliore. Se questo avviene e le persone sono più sane e in salute, anche l’azienda stessa diventa più sana. Un dipendente o un collaboratore sano è maggiormente disposto ad un’attività lavorativa positiva, più virtuosa, anche qui il concetto di circolarità è perfetto. L’azienda ha un compito fondamentale nel trasferire questo messaggio, non solo ai dipendenti ma a tutti gli stakeholder, con un ritorno di immagine importante, il tutto a costo zero e con un risultato sociale di estrema importanza.

Quando si dona, oltre a salvare una vita, si fa del bene anche a se stessi, ricordiamo perché.

E’ vero che donando si fa anche del bene a se stessi, il sistema sanitario ha però la necessità di ricevere un prodotto, un’unità di sangue con i parametri corretti e che si possa trasfondere. Il donatore quindi viene sottoposto ai primi controlli per ottenere l’idoneità a donare.Questo è il minimo sindacale. Il donatore ben controllato dona una sacca di sangue utilizzabile per la trasfusione. AVIS ha il dovere di preoccuparsi della sua salute e di accompagnarlo nel corso della sua vita, tutelando e monitorando il suo stato di salute per quanto nelle nostre possibilità.

A Milano ci siamo preoccupati della salute del donatore. In una ricerca, dal 2008 al 2018 sono stati monitorati 47.966 donatori. Se l’analisi si fosse fermata solamente a considerare i parametri idonei alla donazione, ci saremmo trovati di fronte ad un cittadino apparentemente sano, con i principali valori nella norma. Da un’analisi più approfondite è risultato che di questi circa 1.600 presentavano alcune malattie ed erano asintomatici con malattie congenite o autoimmuni. Approfondendo ulteriormente abbiamo misurato la sindrome metabolica, cioè un parametro che si dirama poi in 5 sottoparametri, 3 dei quali possono essere controllati dal donatore stesso, in quanto riferiti allo stile di vita. Altri due sono parametri ematologici da noi rilevati. In dieci anni ci si può aspettare che la salute di queste 47.000 persone circa peggiori, banalmente a causa dell’invecchiamento. Di queste persone 8.500 hanno migliorato, in dieci anni, la propria sindrome metabolica, sono rimaste stabili 17.351 donatori. Solo in 7.154 persone abbiamo registrato un peggioramento della loro salute. Un successo. Un cittadino non donatore, non attentamente controllato, privo del processo di prevenzione, controllo cardiologico, controllo pneumologico, modifica degli stili di vita etc, in 10 anni si troverebbe in compagnia di quelle persone che hanno subito un peggioramento della propria salute. Abbiamo misurato poi meglio gli stili di vita di 20.764 donatori in dieci anni, 3.700 di questi sono migliorati, 14.600 sono rimasti stabili e solo 2.400 sono peggiorati. Questo grazie al lavoro di educazione che viene fatto dai nostri medici, dai nostri cardiologi, dai nostri nutrizionisti. Non basta però la raccomandazione a correggere alcune brutte abitudini, è necessario intraprendere con il donatore un percorso mirato, intensificare i controlli, condividere insieme a lui i parametri, coinvolgerlo nei progressi che derivano da una correzione dei propri comportamenti.

Un altro passo importante è stato analizzare la capacità respiratoria del donatore. Abbiamo analizzato 4.270 donatori, eseguendo circa 6.000 spirometrie. Il risultato ha individuato, in 100 donatori, broncopatie nascoste. Questa è stata una scoperta importante, i donatori non l’avrebbero mai saputo, è una patologia nascosta, non ci si accorge inizialmente. Queste persone sarebbero andate incontro, con il passare degli anni, a una broncopatia cronica, curata con medicinali e con possibile ricorso all’ospedalizzazione. Pensate che la gestione di un broncopatico cronico costa al sistema sanitario dai 2 ai 15 mila euro all’anno, ipotizziamo una media al ribasso di circa 4.000 euro a paziente, per 100 donatori, si parla di un totale di 400 mila euro. Consideriamo poi la giovane età di questi donatori valutata intorno ai trent’anni di vita media, il costo sanitario, esclusi i ricoveri, sarebbe pari a ben 12 milioni di euro nell’arco della loro vita. La prevenzione sul donatore ha anche un ritorno economico per la sanità in termini di minori costi. Abbinare la donazione alla prevenzione significa fare un percorso mirato e personalizzato con il donatore..

Immagino che i costi per questa prevenzione siano importanti. Come fate e dove trovate le risorse per sostenerli?

Con la generosità dei professionisti, che si prestano gratuitamente o quasi, con le elargizioni delle aziende, oltre che con la generosità del donatore stesso che destina il 5×1000 all’Associazione. È un contributo che a lui non costa nulla, ma permette ad Avis di fare investimenti importanti per la tutela della sua salute.

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