
Memoria e Futuro
Umano, troppo umano
Il profluvio di reazioni, tutte prevedibili e, nella loro diversità, tutte uguali a quelle di quasi tutti i necrologi papali a cui ho avuto modo di assistere nella mia non breve vita, mi ha fatto sorgere una domanda: ma la leadership del papa è Carisma o Istituzione?
La domanda è, a mio avviso, cruciale: papa Francesco I, come altri prima di lui, è stato un leader perché dotato di carisma personale, o semplicemente perché rivestiva il ruolo di papa? La risposta, probabilmente, sta nel delicato intreccio tra le due dimensioni.
Divenire papa significa ereditare un’autorità millenaria, radicata nel dogma e nella struttura gerarchica della Chiesa. Il conclave elegge non solo un uomo, ma un simbolo: il Vicario di Cristo, il custode della dottrina. In questo senso, qualsiasi pontefice è, per definizione, un leader. Il ruolo conferisce un potere immenso: decidere sulla liturgia, nominare vescovi, guidare 1,3 miliardi di cattolici. Francesco, in quanto papa, ha avuto accesso a un megafono globale, a incontri con capi di Stato, a piattaforme come l’ONU. La sua influenza è stata, in parte, un riflesso automatico della carica. In più il papa è, tecnicamente, l’ultimo sovrano assoluto d’Europa: capo di Stato della Città del Vaticano, monarca elettivo e teocratico, con autorità legislativa, esecutiva e giudiziaria concentrata nelle sue mani. Ma questa definizione rischia di essere fuorviante. La sua sovranità non è quella di un Luigi XIV: non si fonda sulla forza, bensì su una legittimità spirituale. La sua “assolutezza” è paradossale: è massima sul piano formale, ma nella pratica si scontra con la complessità di una Chiesa globale, con le resistenze interne e con la sua stessa visione di servizio evangelico. Sovrano sì, ma di un regno che pretenderebbe di essere, prima di tutto, spirituale.
I sostenitori, dentro e fuori la chiesa cattolica, sostengono però che papa Francesco ha portato qualcosa di unico. Il suo stile umile – dalla scelta del nome ispirato a San Francesco d’Assisi alla rinuncia agli appartamenti papali sfarzosi – ha rotto gli schemi. Ha parlato di “Chiesa in uscita”, di periferie esistenziali, ha denunciato la “globalizzazione dell’indifferenza”. Ha abbracciato i malati, ascoltato i detenuti, criticato i muri politici. Queste scelte non erano obbligate dal ruolo: erano frutto del suo carattere, della sua formazione gesuita, della sua visione del Vangelo come rivoluzione morale. Qui emergerebbe il carisma: la capacità di trasformare un’istituzione rigida in un messaggio dinamico, di ispirare non solo i fedeli, ma anche agnostici e laici.
Proprio qui nasce la tensione. Per alcuni tradizionalisti, avversari non solo dell’ultimo papa ma del concilio vaticano II tout court, Francesco ha “tradito” il ruolo, sminuendo la dottrina con aperture viste come ambigue su divorziati, LGBT+, ecumenismo (e che, in fin dei conti, ambigue sono state, vista la poca riforma concreta seguita alle parole). Per i riformatori, invece, è stato il carisma a rendere la sua leadership autentica: “Non è il titolo a fare il profeta, ma le azioni”, direbbero. Eppure, senza il titolo, le sue parole avrebbero avuto lo stesso peso? Difficile dirlo. Certo è che papa Francesco ha usato l’istituzione per amplificare il suo carisma, e viceversa: il suo modo di essere papa ha rigenerato, almeno in parte, un’istituzione che è sempre più in debito di ossigeno nella società contemporanea.
Forse, in fondo, aveva ragione Leonardo Sciascia che, nel lontano 1979 pubblicava in Nero su Nero la riflessione definitiva sullo stato della Chiesa cattolica, commentando la salita al soglio pontificio di un predecessore di Francesco: “Tutti sembrano intenti a cogliere, nel nuovo papa, i segni della Chiesa che sta cambiando. E nessuno che si domandi se una Chiesa può davvero cambiare, se l’essenza vitale di una Chiesa non risieda nella sua immobilità […] non credo che fino a pochi anni addietro si pensasse che potesse cambiare. Se lo si pensa oggi non è perché sta cambiando ma perché sta morendo”.
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