Memoria e Futuro

La sindrome dell’Ottusangolo

di Marco Di Salvo 31 Marzo 2025

A vedere l’ultima conferenza stampa del ministro Piantedosi settimana scorsa sulla vicenda centri per migranti in Albania mi è tornata in mente una figura mitica, malgré lui, del primo Grande Fratello italiano, l’Ottusangolo. Originariamente legato alla figura di Sergio Volpini, la Gialappa’s scelse questa straordinaria definizione per questo concorrente in onore di una figura geometrica che  rappresenta un’ambiguità strutturale: un angolo che non è né acuto né piatto, ma sfuggente, incapace di definire una direzione chiara, ma che è convinto di esprimerla.

Questa metafora si adatta perfettamente alla gestione della crisi migratoria da parte dell’attuale governo italiano, in particolare nella vicenda dei trasferimenti dei migranti in Albania. Come Volpini, intrappolato in un’identità mediatica imposta, il governo Meloni sembra replicare errori prevedibili, aggrappandosi a soluzioni inefficaci e ambiguamente giustificate, con il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi nel ruolo emblematico di Ottusangolo istituzionale.

Il protocollo Italia-Albania, presentato sin dal primo momento in pompa magna come innovativo, ripropone dinamiche già fallimentari: strutture costose (oltre 800 milioni di euro in cinque anni), trasferimenti respinti dai tribunali, e critiche sulla violazione dei diritti umani. Nonostante i ripetuti blocchi giudiziari—come la non convalida dei trattenimenti da parte del Tribunale di Roma —il governo insiste nel perseguire la stessa strategia, modificando decreti senza affrontare le criticità di fondo. Piantedosi, analogamente all’Ottusangolo televisivo, incarna questa rigidità: pur ammettendo i rischi legali, dichiara di voler “arrivare fino alla Cassazione”, rifiutando di riconoscere l’incompatibilità del piano con il diritto UE . Almeno quello esistente, visto che ogni modifica governativa a cui l’esecutivo è stato costretto è stata accompagnata dall’illusoria speranza che l’UE segua la strategia italiana sull’immigrazione.

Ad esempio, l’ossessione nel definire paesi come Egitto e Bangladesh come “sicuri”, nonostante le evidenze contrarie (ad esempio, persecuzioni contro comunità LGBTQ+ o dissidenti), riflette un’ambiguità calcolata. Come l’Ottusangolo, che mescola verità e finzione, il governo manipola i criteri giuridici: la Corte di Giustizia UE ha chiarito che un paese è “sicuro” solo se lo è per tutte le categorie di persone, principio disatteso dall’Italia. Piantedosi, però, insiste: “Siamo dalla parte giusta”, ignorando che i tribunali hanno già respinto questa logica in 18 casi su 20.

Ma è dell’ottusangolo anche la faccia tosta che ha accompagnato l’ultima scelta, quella di trasferire migranti già presenti in Italia, anziché quelli soccorsi in mare, che ad ogni persona normale che seguiva la conferenza stampa rivelava chiaramente un cambio di strategia dettato dal fallimento, non da una razionalizzazione. Ma Piantedosi ha difeso l’operazione con la scusa  dell’“invarianza finanziaria”, dimenticando di aver cambiato idea sul significato stesso dell’operazione Albania, dimostrando una gestione opaca e contraddittoria.

Il ministro incarna l’essenza dell’Ottusangolo: un approccio che, invece di correggersi, si irrigidisce. come quasi l’intero governo, dinanzi alle sentenze contrarie, accusa la magistratura di “pregiudizio” , trasformando un problema giuridico in uno scontro politico. La sua retorica—”andremo avanti con i ricorsi”—ricorda Volpini, che tentava di controllare la sua immagine senza comprenderne le dinamiche. L’ostinazione a ignorare i limiti normativi (ad esempio, il requisito del consenso del migrante per i trasferimenti ) trasforma il governo in una “cavia inconsapevole” del proprio esperimento fallimentare .

Il parallelismo tra l’Ottusangolo e la gestione Meloni-Piantedosi della vicenda Albania evidenzia una cultura politica basata sulla ripetizione, non sull’apprendimento. Come Volpini, intrappolato in un personaggio mediatico, il governo persegue soluzioni ambigue, illudendosi di controllare una realtà che gli sfugge. L’unica differenza è il costo: non più una carriera mediatica, ma milioni di euro e diritti umani calpestati. Per uscire dalla sindrome dell’ottusangolo, servirebbe un cambio di prospettiva: riconoscere gli errori, ascoltare le corti, e investire in politiche integrate. Ma finché prevarrà l’orgoglio sull’evidenza, l’angolo resterà ottuso, e gli errori ciclici.

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