
Memoria e Futuro
La politica dell’ammuina
Non invidio affatto i miei colleghi giornalisti che scrivono o parlano di politica quotidianamente, dovendo, come si dice, stare sul pezzo, ovvero la quotidianità. Da quando ho iniziato a tenere questa rubrica semingiornaliera, ho vissuto in parte l’angoscia di dover trovare temi stimolanti ogni mattina ed è un eufemismo dire che nel nostro paese scarseggiano. Tant’è che per giorni per scrivere le mille/millecinquecento battute delle varie rubriche sui più disparati quotidiani si sta attaccati alle vetture elettriche dei microleader di opposizioni o alle parole comizianti di un professore di liceo in pensione, facendone l’esegesi.
Credo che il problema stia nel fatto che, come in ogni momento di crisi che abbiamo attraversato, oggi conti più la postura che l’azione.
Nella storia politica italiana, il conflitto tra postura e azione ha plasmato istituzioni, leadership e percezione pubblica, rivelando una tensione costante tra l’immagine proiettata e i risultati concreti. Questo dualismo, che ha attraversa i secoli, ci offre una chiave di lettura per comprendere successi, crisi e trasformazioni del Paese. Fin dal Rinascimento, figure come Niccolò Machiavelli teorizzarono l’importanza della percezione nel governo. Nel Principe, egli sostenne che un leader deve “apparire” virtuoso, anche quando agisce con pragmatismo. E troppi si sono abbeverati a questa fonte, anche tra i nostri contemporanei. Questa separazione tra etica pubblica e azione reale divenne allora un paradigma per i sovrani italiani, più attenti a mantenere un’immagine di legittimità che a promuovere riforme strutturali. La postura, in questa fase, fu strumento di sopravvivenza in un’Italia frammentata e instabile.
Successivamente, l’unificazione dell’Ottocento incarna il contrasto tra simboli e pratiche. Giuseppe Garibaldi, eroe popolare, incarnò l’azione diretta con la Spedizione dei Mille, mentre Camillo Benso di Cavour preferì la diplomazia e gli accordi con potenze straniere. Tuttavia, anche Cavour curò attentamente la propria immagine di statista illuminato, bilanciando pragmatismo e retorica patriottica. L’unità, ottenuta attraverso compromessi e calcoli, lasciò irrisolte disparità socioeconomiche, dimostrando come la postura unitaria nascondesse fratture reali.
Ma è con Mussolini che la postura divenne dominante. Il regime costruì un’estetica di potenza attraverso propaganda, architettura e rituali di massa. Opere pubbliche come le bonifiche o i treni puntuali servirono più a legittimare il mito dell’efficienza che a modernizzare il Paese. L’azione fu spesso subordinata alla scenografia, fino al collasso durante la Seconda Guerra Mondiale, quando il divario tra retorica imperiale e realtà militare divenne insostenibile.
Nel dopoguerra, la Democrazia Cristiana mantenne il potere anche presentandosi come baluardo anticomunista, mentre praticava clientelismo e corruzione. La postura di stabilità, sostenuta dagli USA, mascherò una gestione spesso miope, con riforme mancate e debito pubblico crescente. Anche il PCI, pur opponendosi alla DC, adottò una postura rivoluzionaria più simbolica che concreta, accettando di fatto il sistema costituzionale.
L’ascesa di Silvio Berlusconi negli anni ’90 rivoluzionò la postura politica, fondendo leadership e intrattenimento. La sua comunicazione mediatica eclissò la mancanza di riforme strutturali, mentre promesse come “un nuovo miracolo italiano” rimasero irrealizzate. Più recentemente, il Movimento Cinque Stelle ha oscillato tra retorica anti-sistema e difficoltà di governo, evidenziando come l’immagine “purista” possa scontrarsi con la complessità amministrativa.
In conclusione, la storia italiana dimostra che postura e azione, che sono entrambe necessarie (la prima costruisce consenso, la seconda produce cambiamento) hanno vissuto alterne fortune, privilegiando la prima rispetto alla seconda nella maggior parte dei casi.
Tuttavia, quando la cura dell’immagine prevale sul bene comune – come nel fascismo, negli anni della DC, nel berlusconismo o negli anni recenti fatti di conferenze stampa roboanti e leggi presentate al pubblico “salvo intese” – il risultato è stagnazione o crisi.
La sfida per la politica italiana resta trovare un equilibrio autentico, dove l’etica della responsabilità superi l’opportunismo dell’apparenza. Solo così si potrà colmare il divario tra rappresentazione e realtà, ancora oggi fonte di disincanto democratico. E di crisi quotidiane di ispirazione per i poveri notisti politici che devono raccontare l’ammuina che li circonda.
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