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La musica che scivola

di Marco Di Salvo 1 Febbraio 2025

Chi scrive è un antico appassionato di musica, seppur non praticante. Mi sono limitato alla funzione di fruitore, negli oltre quarant’anni di presenza della musica, dei più diversi generi, nella mia vita. E, nel corso dei decenni, non ho potuto non notare come è cambiato innanzitutto il mio modo di goderne. Dagli anni in cui si cercavano disperatamente vinili di importazione in negozietti che stavano fuori dal circuito della musica pop di successo, al periodo dei cd e delle cassette furiosamente scambiate tra amici appassionati alla possibilità di trovare tutto lo scibile musicale a portata di smartphone è veramente cambiato tutto, a partire dal modo di fruizione fino alla centralità della musica per ognuno di noi.

Anche per lei è inevitabile usare il concetto di “liquidità”, introdotto dal sociologo Zygmunt Bauman per descrivere la modernità, che si adatta perfettamente alla musica di oggi. Bauman parlava di una società in cui tutto è fluido, veloce e privo di radici, e la musica non fa eccezione. Le canzoni diventano virali in pochi giorni, grazie ad esempio a piattaforme come TikTok, ma altrettanto rapidamente scompaiono dal radar. Un brano può raggiungere milioni di ascolti in poche settimane, per poi essere dimenticato altrettanto velocemente. Questa velocità di consumo ha cambiato anche il modo in cui gli artisti creano musica. Spesso si punta a brani brevi, immediati e adatti a diventare “trend”, piuttosto che a opere complesse e stratificate. Il risultato è una musica più effimera, che difficilmente lascia un segno duraturo nella vita delle persone. La canzone perfetta per lo streaming è quella che cattura l’attenzione nei primi secondi, perché l’ascoltatore medio potrebbe passare a qualcos’altro prima ancora che arrivi il ritornello.
La rete e i social media hanno amplificato questa liquidità. Da un lato, hanno democratizzato l’accesso alla musica, permettendo a chiunque di scoprire nuovi artisti e condividere brani con il mondo. Dall’altro, però, hanno trasformato la musica in un prodotto da consumare rapidamente, spesso associato a immagini, video o meme. Una canzone può diventare famosa non per il suo messaggio o la sua qualità artistica, ma perché è stata usata in un video divertente o in una challenge virale. Niente di diverso a ciò che accadeva con le pubblicità o i film di una volta, ma il tutto in maniera più parcellizzata di prima, con ognuno che segue il suo flusso di musica sconnesso dagli altri.

Inoltre, i social media hanno frammentato l’attenzione. Mentre una volta ci si concentrava su un album per ore (ricordo ancora quando comprai il Cd di Achtung Baby degli U2 e rientrai a casa per chiudermi in stanza al buio con il lettore portatile e le cuffie per sentirlo in solitario silenzio), oggi si passa da un brano all’altro in pochi secondi, spesso senza nemmeno ascoltarlo fino alla fine. La musica è diventata un flusso continuo, in cui è difficile distinguere tra di loro i brani. Le playlist algoritmiche, che mescolano generi e artisti, contribuiscono a questa sensazione di “liquidità”, in cui tutto scorre senza lasciare traccia. E siamo immersi nella musica “da ascensori”, si sarebbe detto negli anni sessanta. Con la differenza che quest’ultima era spesso una musica da sottofondo, mentre oggi store di abbigliamento e locali pubblici delle più diverse attività sono connessi alle piattaforme sparando a tutto volume i “successi” del momento. E quando non si tratta di questo, sono immarcescibili successi “anni ottanta” (come se l’ultima  musica decente si fosse prodotta prima della caduta del muro di Berlino, e non è vero) che perforano le orecchie di chi, anche in quegli anni, li considerava delle puttanate inascoltabili.

Nonostante questa tendenza alla liquidità, mi ostino a cercare un rapporto più profondo con la musica. Provo ad ascoltare  gli album rispetto ai singoli, a studiarne i testi e a immergermi completamente nell’esperienza musicale. Ma mi rendo conto come sia sempre più difficile farlo. Anche da solo. La musica scivola via e, tranne poche sporadiche eccezioni, poco resta impigliato nei flussi della memoria e del piacere dell’ascolto. Ed è sempre più difficile distinguere il segnale dal rumore di fondo, che ottunde i sensi.

 

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