Memoria e Futuro

La coperta elastica del PNRR

di Marco Di Salvo 9 Aprile 2025

Se c’è una cosa che in questi anni il governo Meloni ha dimostrato agli italiani di saper padroneggiare, oltre alla faccia feroce e ai decreti legge spot che scompaiono il giorno dopo la conferenza stampa di presentazione, è l’arte della rimodulazione creativa.

E certamente il soggetto più sfruttato per fare sfoggio di questa attitudine è stato il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), quel fantastico progetto da 194,4 miliardi , che doveva trasformare l’Italia in un Paese avveniristico: digitalizzato, ecologico, e con treni che non deragliano. Invece, è diventato un gioco di prestigio politico, dove i fondi europei scompaiono e riappaiono per finanziare tutto, tranne ciò per cui erano destinati.  Anche ieri un bell’incontro con le categorie a rischio dazi e Taaaaac!!!, escono fuori 25 miliardi da cassetto, naturalmente “rimodulando”.

Questa parola magica ha caratterizzato l’azione del governo sin dalla sua nascita, quando il primo pensiero, oltre che ai rave, fu dedicato dall’allora ministro a trasformare il piano ricevuto dal governo Draghi in qualcosa che di fatto ha significato “spostare soldi dove serve per non fare arrabbiare i nostri elettori”. In questi anni si è provato a finanziare di tutto: dal taglio del cuneo fiscale agli stadi di Firenze e Venezia (poi rimossi dopo le proteste Ue) . D’altronde perché costruire (come da programma iniziale) asili nido e case della salute quando puoi avere un nuovo campo da calcio?

Meloni, da abile illusionista, ha trasformato il PNRR in un cash machine per emergenze politiche. Quando servivano risorse per il “caro energia”, il governo ha annunciato un “patto per la crisi” da 25 miliardi , prelevati con nonchalance dal fondo per la transizione verde. E perché no? Tanto gli alberi da piantare (1,7 milioni entro il 2022) sono ancora in attesa di essere conteggiati e quelli che si vedono spuntare in giro per le città italiane danno l’aria di essere messi lì a fare scena, con la prospettiva di fare una pessima fine di qui a poco.

Ed è straordinario come la cifra sia la stessa della conferenza stampa di ieri. Con 25 miliardi si fa tutto da noi. “A Frà, che te serve?” Si sarebbe detto nella Prima Repubblica “25 mijardi” è la risposta, pare, di ogni categoria.

Nel frattempo, la Corte dei Conti, che osava criticare i ritardi, è stata gentilmente messa da parte con un decreto. Meno controlli, più efficienza, no? E così, mentre l’Ue chiede trasparenza, l’Italia risponde con un portale (Italia Domani) che, secondo Openpolis, è più opaco di un bicchiere di nerofumo.

Le sei missioni del PNRR sembrano uscite da un film di spy-story: obiettivi epici, ma nessuno sa come raggiungerli. La “Missione Salute”, con 18,5 miliardi , ha prodotto più relazioni che ospedali. Quella per la “Mobilità Sostenibile”, l’unica a spendere l’87% dei fondi , probabilmente ha finanziato anche i taxi di Roma (altra categoria “protetta” dagli attuali governanti).

E poi ci sono le riforme: quella della PA, che doveva assumere giovani, è bloccata da concorsi annullati per “errori di forma” . Quella della giustizia? Tra rilievi del Quirinale e decreti legge volanti ho perso il conto delle riscritture.

La Meloni (ma soprattutto Fitto finché è stato al governo) è stata maestra nel negoziare con l’Ue: “Promettiamo di fare i compiti, se ci date i soldi in anticipo”. Finora così abbiamo incassato miliardi, ma spenderli (e spenderli bene) è un altro conto.

E mentre la Commissione Europea è oggi in altre faccende affaccendata (tra riarmo e dazi) , Meloni ha passato questi anni ad annunciare ciclicamente trionfante “accordi storici” , che in realtà sono state tutt’al più email d’intenti scambiate durante un caffè a Bruxelles.

Il PNRR è ormai un simbolo: conferma come chiunque sia al governo in Italia può trasformare qualsiasi piano in un’opera teatrale. Con ogni rimodulazione, il governo reinventa la realtà, come uno scrittore che cambia il finale del libro per compiacere il pubblico.

E mentre i fondi scorrono verso nuove priorità (sempre più vaghe), gli italiani possono consolarsi con un pensiero: nel 2026, quando il piano scadrà, avremo almeno imparato a usare la parola “resilienza” in tutte le salse, soprattutto nelle sue caratteristiche di elasticità, almeno per quanto riguarda la gestione dei soldi.

D’altronde, perché costruire il futuro quando puoi rimodularlo?

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