
Memoria e Futuro
Ipocrita è chi l’ipocrita fa
Certo che, in questi ultimi giorni siamo stati davvero fortunati a scoprire che il giornalismo italiano non ha perso la sua capacità di indagine. Basterebbe scorrere la ventina di pagine quotidiane con cui ci stanno ammorbando sulle vicende relative agli incontri, alle cose fatte, alle cose dette dal papa (in vita) per capire che, effettivamente, quando i quotidiani italiani scrivono d’altro (che so, politica, economia, internazionale) sviluppano le loro attività quotidiane con una pigrizia intellettuale e fisica che è indescrivibile, almeno confrontata con quello che sta succedendo in questi giorni. Per inciso, mi piacerebbe sapere quanto di pubblicato in questi giorni ha avuto il contributo di IA. Ma non tutti sono così trasparenti da dichiararlo.
E che dire della politica? Ieri c’è stato un dibattito in cui risuonata alta e forte una parola che è stata come una scudisciata, “ipocrisia”. Parola difficile da armeggiare per un politico (a meno che non sia un parvenu), a qualsiasi schieramento esso appartenga, in quanto è spesso l’essenza stessa dell’attività politica.
L’ipocrisia in politica è l’arte sottile – o spudorata, dipende dall’uditorio – di dire una cosa, farne un’altra e, spesso nel frattempo, sostenere di non aver fatto né l’una né l’altra. È l’abilità di piangere per i poveri con una mano sul cuore e l’altra in tasca, intenta a firmare tagli alla spesa sociale. Ma non è solo un difetto morale: come sottolinea il politologo David Runciman nel suo Political Hypocrisy (2008), è una componente strutturale della democrazia moderna. Senza un pizzico di finzione, dice lui, il sistema si incepperebbe.
Il fenomeno non è certo recente. Già Machiavelli, nel sovracitato e sovrastimato Principe, spiegava che un leader doveva sembrare virtuoso, più che esserlo. Cosa sarebbe un governante sincero, dopotutto? Uno che annuncia “sì, aumenteremo le tasse e diminuiremo i servizi”? I pochi che si sono arrischiati a farlo non hanno proprio avuto un gran successo elettorale.
Ma l’ipocrisia non è solo fingere virtù: è spesso il contrario della coerenza. È il “sono favorevole alla pace” detto mentre si esportano armi, è il “difendiamo la famiglia” gridato da chi ha tre divorzi e un amante nel retro dell’ufficio.
Nell’era moderna, l’ipocrisia politica ha toccato vette esilaranti. Ricordiamo il caso Watergate: Nixon che giura trasparenza mentre ordina intercettazioni abusive. O Tony Blair che, con accento oxfordiano e sguardo sereno, giustificava l’intervento in Iraq con armi di distruzione di massa… mai trovate. In Italia, l’arte ha assunto tratti quasi barocchi: il politico che predica sobrietà a bordo di un jet privato o quello che urla “onestà!” mentre firma appalti opachi.
Tuttavia, l’ipocrisia non è solo un vizio individuale. Judith Shklar, teorica della filosofia politica, notava che i regimi democratici impongono ai leader una doppia lealtà: agli ideali e al potere. Da qui, inevitabile, nasce il compromesso tra il dire e il fare. Alcuni, soprattutto quelli che al governo ci arrivano, lo chiamano pragmatismo. Chi sta alla finestra assiso ai banchi dell’opposizione, invece, si sgola come un liceale all’assemblea d’istituto, lamentando la poca fibra morale di chi guida il paese. Scene viste e riviste.
Ma perché sopportiamo tutto questo? Perché l’ipocrisia, come diceva La Rochefoucauld, è “l’omaggio che il vizio rende alla virtù”. In fondo ci consola: preferiamo essere presi in giro da chi sa farlo con stile, piuttosto che affrontare l’indifferenza brutale di chi nemmeno finge di preoccuparsi.
Ma, in fondo, cos’è l’ipocrisia in politica? È il trucco da palcoscenico di un teatro dove tutti fingono di credere che chi recita lo faccia per il bene comune. È l’inchiostro invisibile dei programmi elettorali, il carburante del dibattito pubblico, il pane quotidiano degli indignati. Ma senza di essa – diciamocelo – ci toccherebbe affrontare la realtà. E chi ha davvero voglia?
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