Memoria e Futuro

Io sono la fine del mondo

di Marco Di Salvo 28 Gennaio 2025

It’s the end of the world as we know it” cantavano decenni fa i R.E.M. (e dopo qualche anno coverizzati, male, lo ripeteva anche Ligabue) ma pare che sia l’ora di dircelo per davvero, che sia la fine del mondo. C’è chi pensa di esserlo per la politica americana e i suoi costumi usuali (il gangsta Trump), c’è il clima che assesta i suoi colpi sempre più imprevedibili (e a cui assegniamo sempre meno attenzione, visto che pare il capitale sposti i suoi interessi verso altro), c’è la guerra per il predominio sulle intelligenze artificiali (che lascerà a terra solo i lavoratori che verranno sostituti, non certo i creatori-miliardari che avranno modo di compartecipare, in qualche modo, agli utili dei vincitori).C’è anche la versione minima della questione, se vogliamo “familiare”, della commedia cinematografica italiana che, finite le feste, presenta un oggetto a suo modo anomalo nelle sue caratteristiche essenziali (e che riceve un’accoglienza inattesa al box office).

Il film “Io sono la fine del mondo”, prima pellicola con protagonista lo stand up comedian palermitano Angelo Duro (diretta con la solita maestria da Gennaro Nunziante, regista di altri exploit imprevisti al botteghino come i primi film di Checco Zalone e di Pio e Amedeo) è un film urticante, almeno per la media della cinematografia italiana. Non c’è bonomia, non ci sono strizzate d’occhio al pubblico da parte del tremendo protagonista, non c’è empatia: è una pura dark comedy, come raramente se ne sono viste nel nostro paese. Un film che immaginiamo abbia anche sconvolto alcuni degli spettatori abituali di Duro, che magari si immaginavano un ammorbidimento del personaggio nel passaggio dal piccolo al grande schermo, e che invece hanno visto applicato il suo cinismo strutturale al tema meno sfruttato in tal senso dal cinema nostrano, la famiglia.

Siamo al livello di Parenti Serpenti di Monicelli, per capirci. Un unicum, insomma. E come tale bersaglio di critiche, più di quanto avvenne con il suo predecessore, forse perché il regista toscano era già annoverato tra gli “intoccabili” del cinema italiano e quasi al termine di una gloriosa carriera, ma forse per un motivo più profondo, che è l’essenza di una parte almeno di questa attuale “fine del mondo”: l’impossibilità da parte del pubblico (e di una certa critica) di capire ironia, sarcasmo e cinismo e di costruirsi autonomi anticorpi.

Siamo nell’era del disclaimer, delle cose “pericolose” (in quanto controverse) segnalate prima della visione, delle sensibilità brandite (e confacenti a censure più o meno esplicite). L’era del don’t hurt me che si trasforma nel momento in cui qualsiasi pensiero fuori dall’ordinario non viene discusso per non creare traumi, ma l’assenza di discussione crea anche assenza di pensiero critico, autonomo, formazione di coscienza. E si vive nel limbo, in attesa della fine del mondo prossima ventura.

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