
Memoria e Futuro
Il gioco delle sedie
Ciclicamente, come l’onda di risacca, si riaffaccia periodicamente una parola simbolo della politica italiana, rimpasto.
Certo, in questo periodo la si usa per negarne la possibilità, per frenare i desideri di cambio palazzo del leader della Lega, ma aleggia, altroché se aleggia. Una delle conseguenze della lunga durata di questo governo, evidentemente.
In un Paese dove la stabilità politica è più rara di un caffè decente a un distributore automatico, i rimpasti di governo si ergono a vera e propria strategia di sopravvivenza nazionale. Ogni volta che un ministro inciampa su un tweet maldestro, un rinvio a giudizio o un leader di partito sogna un posto più comodo, ecco che scatta l’operazione “rimpastiamo tutto”. Un balletto di poltrone che trasforma Palazzo Chigi in un salotto delle ambizioni, dove l’unica costante è il caos. C’è da dire che la presidente del consiglio ha retto abbastanza bene a queste pressioni, almeno finora. Altri predecessori a quest’ora durante le loro esperienze alla guida del governo avevano già fatto diverse modifiche nei loro esecutivi, sia di ministri che di sottosegretari.
Ma la genialità italiana sta nel trasformare una crisi di governo, che in altri paesi porta diretti alle urne nella stragrande maggioranza delle occasioni, in un’occasione per sopravvivere, semplicementerinnovando il guardaroba istituzionale. Perché risolvere i problemi quando puoi semplicemente cambiare chi dovrebbe risolverli? Il rimpasto è l’equivalente politico del “taglia e cuci” sartoriale: si spostano le etichette, si aggiustano le giacche, e voilà, il governo sembra nuovo di zecca. Peccato che sotto il tessuto, i buchi restino gli stessi. La recente sentenza della Cassazione sulla precedente esperienza di Salvini al Viminale, accoppiata a tutte le altre vicende giudiziarie legate a quel periodo, dovrebbero sconsigliare al ritorno, ma il tapino pare insistere, forse perché quello è stato il periodo più bello della sua carriera di potere, quando ogni suo sospiro faceva titolo.
Dal punto di vista psicologico, i continui rimpasti funzionano come una sorta di terapia di gruppo per la classe dirigente. Cambiare ministero è come spostare divano e mobili in una stanza: ti dà l’illusione del rinnovamento, senza dover affrontare un trasloco. Solo per fare un esempio, notata alcuna differenza di gestione nel cambio tra Sangiuliano e Giuli (a parte le consulenze gratuite, naturalmente)?
Ma il vero capolavoro è la narrativa che accompagna ogni rimpasto: è tutto un “Rafforzare l’esecutivo”, un “Dare nuovo slancio”. Frasi vuote come le promesse elettorali, che nascondono una realtà semplice: il rimpasto è l’arte di sopravvivere senza fare nulla. È il Grande Fratello della politica, dove però i concorrenti vengono eliminati non dal pubblico, ma dalle ambizioni dei colleghi.
Di fatto, i rimpasti sono il termometro di un sistema febbricitante, dove l’unica competenza richiesta è saper stare in equilibrio su una poltrona traballante. Perché non si può sapere mai quando ripartirà la musica e toccherà a te, di perdere il gioco delle sedie.
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