
Memoria e Futuro
I fronti fragili
Questa enorme perdita di tempo su Ventotene e dintorni, benissimo raccontata da Marco Fascetta sabato su il manifesto mi pare un’ennesima puntata di una vicenda che si trascina almeno dalla fine della seconda guerra mondiale, quella della mancata pacificazione.
Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale agli anni del terrorismo, l’Italia ha affrontato cicli di violenza politica senza mai completare un autentico processo di reciproco riconoscimento tra le parti. Questa mancanza ha lasciato eredità profonde, influenzando la società, la politica e la memoria collettiva fino a oggi.
Dopo il 1945, l’Italia scelse di chiudere rapidamente i conti con il fascismo attraverso l’amnistia dal comunista Togliatti (1946), che reintegrò ex gerarchi e collaborazionisti nella vita pubblica. Questa “giustizia negata” per le vittime della Resistenza creò un primo vulnus: anziché riconciliare, alimentò risentimenti tra ex partigiani e chi aveva sostenuto la Repubblica di Salò. La memoria della Guerra Civile (1943-45) rimase divisa, con una destra nostalgica che minimizzava le colpe del fascismo e una sinistra che strumentalizzava la Resistenza come mito fondativo. Questo clima alimentò tensioni latenti, esplose poi negli anni ’60-’70. A questo si aggiunse la polarizzazione della Guerra Fredda che trasformò l’Italia in un campo di battaglia ideologico. Le istituzioni, timorose dell’ascesa del PCI, tollerarono o appoggiarono gruppi neofascisti, mentre parti dello Stato (come i servizi segreti) furono coinvolte nella “strategia della tensione”: stragi (Piazza Fontana, 1969; Brescia, 1974) attribuite a gruppi di estrema destra, ma spesso oscurate da depistaggi. L’obiettivo era destabilizzare il Paese per giustificare un autoritarismo “anticomunista”, in stile greco o sudamericano. La mancata verità su queste stragi (molte ancora senza colpevoli) consolidò la sfiducia nelle istituzioni, percepite come conniventi con i terroristi neri, alimentando anche un complottismo di cui abbiamo ancora oggi strascichi alimentati dai new media.
Negli anni ’70, la violenza divenne sistemica. A sinistra, gruppi come le Brigate Rosse giustificavano la lotta armata come risposta a uno Stato “fascista”; a destra, il neofascismo si radicalizzava. Lo Stato rispose con leggi emergenziali e pentitismo, ma in modo squilibrato: mentre i terroristi rossi furono processati (e lo sono ancora come raccontavamo qualche giorno fa), molti legami tra apparati statali e terrorismo nero rimasero opachi. La mancata equità processuale acuì le divisioni: la sinistra denunciava un doppio stato, la destra additava il pericolo comunista.
Di qui le conseguenze che si trascinano finora ad oggi, la frammentazione della Memoria che comporta l’assenza di una narrazione condivisa, per cui ogni gruppo coltiva la propria verità, la sfiducia nelle Istituzioni, a cui hanno dato spago l’opacità delle indagini (es. Gladio, stragi impunite) alimentando teorie complottiste e cinismo verso la politica, minando la legittimità democratica.
In più, la mancata pacificazione ha perpetuato divisioni ideologiche. La destra post-fascista (MSI, oggi Fratelli d’Italia) e la sinistra (più o meno radicale) hanno costruito identità su memorie contrapposte, rendendo difficile il dialogo. L’assenza di riconciliazione ha favorito una politica conflittuale, dove lo scontro prevale sul compromesso, riflettendosi nell’instabilità governativa e nel populismo contemporaneo.
Questo ha reso l’Italia il Paese fragile che conosciamo, dove le ferite del passato si riaprono ciclicamente. Senza verità giudiziarie complete e senza un processo di riconciliazione collettiva (come commissioni verità o educazione storica condivisa), le divisioni ideologiche continuano a nutrire polarizzazione e sfiducia. La lezione è chiara: la democrazia non si consolida con l’oblio, ma attraverso il coraggio di guardare in faccia il passato.
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