
Memoria e Futuro
I figli del “ma anche”
E così, la grande manifestazione che sarebbe organizzata per sabato prossimo, in sostegno dell’Europa (e dell’Ucraina) pare stia scadendo nell’ennesima vittima della principale malattia progressista (sempre che di progressisti si tratti) degli ultimi decenni, ovvero il “ma anche”. E siccome non vogliamo lasciare che siano solo i giornali di destra a deriderne le vicende, riteniamo opportuno analizzarne le motivazioni.
Questa formula ha un padre noto, Valter Veltroni, primo segretario del Partito Democratico (PD) dal 2007 al 2009, che resterà nella storia (piccola) per aver tentato di ridefinire l’identità della sinistra italiana attraverso una strategia comunicativa e politica basata sull’inclusione, anche tramite il ricorso frequente alla congiunzione “ma anche” nei suoi discorsi che divenne emblematico di questo approccio, sintetizzando l’obiettivo di unire diverse anime del centrosinistra sotto un’unica “casa comune”. A quasi vent’anni dalla sua segreteria del PD possiamo serenamente dire che l’idea di trasformare la coalizione di centrosinistra italiana in una sorta di sinistra DC allargata fu un fallimento, le cui conseguenze si riscontrano anche nel lessico odierno e nell’incapacità di scelta di posizioni chiare anche degli attuali rappresentanti del partito. E’ vero che Veltroni ereditò un contesto politico frammentato: il PD nasceva dalla fusione di Democratici di Sinistra, Margherita e altre componenti minori, cercando di superare le divisioni storiche tra ex-comunisti, socialdemocratici e cattolici progressisti. Il progetto fu stigmatizzato, sin dalla nascita, da alcuni esponenti della storia del PCI e del PDS. Esemplare da questo punto di vista un libro, che andrebbe riletto ogni anno in occasione dell’anniversario della nascita del Partito Democratico, quello di Emanuele Macaluso, Al Capolinea.
Comunque, la formula “ma anche” rifletteva certamente un’ambizione, proponendo una sintesi tra valori tradizionali della sinistra – giustizia sociale, diritti – e temi più trasversali, come modernizzazione, efficienza e dialogo con il centro. In comizi e interviste, Veltroni sottolineava: “Dobbiamo difendere i lavoratori, “ma anche” sostenere le imprese”, o “Valorizzare la tradizione, “ma anche” innovare”. Questo bilanciamento mirava a conquistare un elettorato più ampio, indebolendo la polarizzazione con la destra berlusconiana. I risultati ottenuti dimostrarono il contrario, forse anche per i motivi esposti da Giuliano Ferrara in un editoriale di qualche anno fa.
Ma le conseguenze di questo approccio si sono protratte oltre la leadership di Veltroni e la segreteria Schlein sembra essere la summa di tutti i difetti di quella scuola di formazione. La retorica, il “ma anche”, ma non solo, una posa che non corrisponde ad una coerenza di comportamento, l’incapacità di fare sentire una forte presa sugli argomenti di cui si parla. E sembra essere andata oltre il partito, visto l’incoerenza dei messaggi di quelli che dovrebbero essere intellettuali di area e che, quando messi in prima linea, dimostrano tutte le loro fragilità. Spingendo gli sconcertati potenziali protagonisti della manifestazione a passare dal “ma anche” al “ma anche no”.
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