
Memoria e Futuro
Hail to the thief
Ieri, facendo un po’ di ordine nel mio archivio digitale di musica, mi sono trovato davanti ad un disco dei Radiohead che non ascoltavo da tempo. L’ho fatto partire ed ho subito ripensato a quando, nel 2003, pubblicarono Hail to the Thief, un album che sin da subito mi sembrò (giustamente) carico di ansia politica, sfiducia istituzionale e un oscuro presagio sul futuro della democrazia. Il titolo, ispirato a un commento radiofonico sulle elezioni statunitensi del 2000—vissute tra contestazioni e sospetti di brogli in Florida—rifletteva già allora un clima di sfiducia nel sistema. Oggi, l’era Trump (che comincia nel 2016) ha trasformato quelle paure in una realtà distopica.
C’è da dire, per chi non c’era, che quel disco nasceva in un contesto post-11 settembre, segnato dalla Guerra al Terrore, dalla manipolazione mediatica e dall’ascesa di un autoritarismo “soft”. Brani come 2 + 2 = 5 denunciavano la sottomissione alla narrativa del potere, mentre A Wolf at the Door dipingeva un mondo caotico, preda di élite ciniche. La musica, con i suoi ritmi claustrofobici e testi criptici, catturava il senso di impotenza di fronte a meccanismi più grandi dell’individuo. Ripensare agli odierni onori tributati a George Bush Jr. anche dai suoi avversari politici di allora in contrapposizione all’attuale presidente provoca in me che ho vissuto quell’era una sorta di smarrimento.
Inutile dire che, all’epoca, l’album fu criticato da alcuni come “troppo politico”. Eppure, quel disco anticipava un tema cruciale: la crisi della verità, con la sua erosione sistematica attraverso linguaggio ambiguo, propaganda e paura.
Quando Donald Trump vinse nel 2016, molte delle dinamiche descritte dai Radiohead si rivelarono in modo plateale. Lo slogan “Make America Great Again” riprendeva la retorica nostalgica e divisiva; l’attacco ai media come “fake news” minava le fondamenta stesse del dibattito pubblico. Come in 2 + 2 = 5, dove “il Presidente non mente mai”, Trump costruì un universo alternativo in cui i fatti erano negoziabili e la lealtà al leader sostituiva il pensiero critico. A rivederla oggi, la campagna elettorale del 2016 e la presidenza che ne seguì furono un’accelerazione di tendenze già presenti: l’uso dei social media per bypassare i gatekeeper tradizionali, la polarizzazione come strategia, la banalizzazione del linguaggio politico (Grab them by the pussy paragonato ad Hail to the Thief, entrambi frasi rubate a contesti reali e trasformate in simboli). L’illusione bideniana che quella fosse una parentesi un po’ folle è stata schiantata dalle ultime elezioni presidenziali, in cui il combinato disposto di insoddisfazione e apatia degli elettori democratici ha fatto si che tornasse alla Casa Bianca il thief preconizzato dai Radiohead.
Se alla fine nel complesso l’intero album Hail to the Thief era un atto di resistenza creativa—”Just because you feel it doesn’t mean it’s there” cantava Yorke in “There There”—la seconda era Trump sta mostrando cosa accade quando la post-verità diventa sistema. Le teorie del complotto (QAnon), i tweet provocatori, le verità alternative hanno creato una realtà frammentata, dove il concetto stesso di fatto oggettivo viene messo in discussione. In Sail to the Moon, Yorke sussurrava: Maybe you’ll be President… but know right from wrong. Un’ironia amara, se si pensa a come Trump abbia sovvertito l’etica politica, sostituendo il wrong con un whatever works. Basti vedere le “strategie” messe in campo in questo primo mese e le scelte del suo gabinetto per capire di cosa sto parlando.
Forse il vero problema sta ne fatto che il tempo passato dalla pubblicazione di Hail to the Thief a Trump non è una coincidenza, ma il riflesso di una continuità storica: l’abuso di potere, la paura strumentalizzata, la svalutazione del linguaggio. I Radiohead, con la loro ossessione per il controllo e la ribellione, avevano catturato lo spirito di un’epoca che ha preparato il terreno per il trumpismo e che in realtà non ha avuto alcuna resistenza effettiva.
Quell’album era un grido di allarme, Trump rappresenta il disastro annunciato, figlio anche della nostra distrazione collettiva. La domanda che resta è se, come nel finale di A Wolf at the Door, saremo in grado di “svegliarci” dalla narrazione, o se continueremo a ballare sulle note della post-verità.
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