Roma
No, questa Roma deserta per il coronavirus non è bella ma disperata e sola
Come sembrava bella in questi giorni Roma deserta, e quanto larghe le sue strade. Ma no, non era bella davvero. Era soltanto un’illusione. Quella bellezza era la consolazione offerta dalla tv. Vista dalla strada, attraversata in ogni suo angolo in questa Pasquetta di pandemia, Roma invece pareva nuda, spogliata a forza, illividita. Pareva incattivita dalla solitudine ch’era ovunque, assoluta e padrona. Pareva disperata e sola anch’essa, come Francesco a dir messa in piazza San Pietro. Roma insomma pareva attonita e smarrita, specchio d’un mondo malato, città di Dio sì, ma nella quale, forse, Cristo non è ancora risorto.
Così, indifferente alla misura del tempo, Roma a Pasquetta se ne è restata in attesa dietro le finestre, invasa da un sole bianco e incerto, e il cielo anch’esso bianco a smorzare ogni pretesa monumentale, a sciogliere persino il suo miracolo barocco. Neppure il suono così domestico dell’acqua delle fontane ha spezzato un silenzio radicale e senza rimedio. Camminando per i vicoli deserti sembrava d’esser inseguiti dal rumore dei propri passi. Neppure i fiumi di piazza Navona sono riusciti a rompere l’inquietudine di quel silenzio.
E, anzi, pareva che quelle statue anch’esse si piangessero ogni lacrima nella vasca che da secoli le accoglie; e i loro volti stravolti e quella mano – quella che si pretende modellata da Berini perché il Rio de la Plata non veda la Sant’Agnese di Borromini, proprio lì di fronte – quella mano, dunque, protesa verso il cielo pareva adesso una imprecazione, mentre anche il Nilo forse ora si copre il volto con un telo, non più perché ignori la sua sorgente, e dunque il suo passato, ma per l’incertezza del futuro.
Come il Nilo, anche i romani, asserragliati nelle case, da settimane non vedono più la loro città. Ma se una città nessuno la può vedere, quella città non esiste più. Esistono le case, esiste l’interno delle case, lo spazio privato, non condiviso, che produce una esistenza individuale, non più una comunità di persone com’è invece quella modellata dalle piazze dove ci si può toccare e parlarsi. Oggi è il tempo dell’infinita quantità di esperienze separate che non conoscono più il mondo, il mondo qui fuori, quello che va in scena ancora una volta come fa da secoli e che però oggi lo fa per nessuno; quel mondo che, appunto, adesso nessuno può vedere e allora forse non esiste più.
Il fatto è che il deserto urbano non è una cosa inaudita. Le città, anzi, sono deserte nello stesso modo ogni giorno dell’anno. Deserta è la città che accoglie l’alba, quella dei primi bar che alzano la serranda, e deserta è la città di chi non può dormire e scende in strada, dei pacchi di giornali consegnati a edicole ancora chiuse, di chi fugge da chissà quali fantasmi, degli autobus notturni che tornano ai depositi, dei portieri di notte. Deserta è la città quotidiana di chi va a lavorare quando l’alba non ha raggiunto le strade ma è ancora una lusinga in un angolo del cielo. Ed è, quella, una Roma capace di mille promesse e che profuma di caffè dietro le finestre ancora chiuse. Quelle finestre poi s’apriranno per accogliere l’aria fresca del mattino: oggi invece sono sbarrate. Ciò che insomma adesso rende ogni cosa straordinaria non è il deserto il quale, poi, di per sé è pura scenografia e ciò spiega anche il brivido borghese della scoperta che tanti sembrano aver sperimentato in questi giorni: ciò che rende ogni cosa straordinaria è invece la cattività delle persone.
Così, al di là della suggestione regalata dalle immagini passate in tv e ovunque in queste settimane, il deserto di questa Roma non somiglia in nulla a quello raccontato da Carlo Verdone in Un sacco bello, né è la Roma del Sorpasso o quella del sole d’estate, feroce che scioglie l’asfalto. È invece una Roma che pare quella raccontata in Io la conoscevo bene, la città algida ma plumbea attraversata da Adriana in quel suo ritorno a casa disperato.
Ecco, allora che Campo de’ Fiori, piazza Farnese, Pantheon, Trinità dei Monti, Trastevere, Piramide, il Circo Massimo, via del Corso, in questa Pasquetta stralunata ovunque era lo stesso; persino la città politica, Montecitorio, palazzo Chigi erano avvolti in una inquietudine appena larvata. Su una panchina, di fronte a San Clemente, un ragazzo – miracolosa presenza umana! – sgranava un rosario, poiché forse non aveva altro posto per farlo. Nei pressi di piazza Navona, qualcuno cercava un riparo sistemando i propri cartoni nell’incavo di una vetrina. E poi soltanto polizia, carabinieri, mitraglie spianate ad ogni posto di blocco, ed erano decine, ovunque, fino a saturare da soli una città esausta e così vuota che si restava annichiliti di fronte a quegli stessi muri e su certi gradini sui quali in altri tempi trascorsero estati di baci, sorrisi e pure qualche addio.
E gli altri? Dove sono gli altri? Dov’è oggi la città caciarona e sfrontata? Dove sta la città indolente e sorniona? E dove la città coatta che fa la voce grossa e poi s’ammoscia in un sorriso? Dov’è Roma? Dove sta? Ecco, oggi Roma non c’è. E per questo non c’è neppure la grande bellezza promessa dalla tv che ci ha mostrato una città deserta raccomntandoci che proprio per questo fosse bellissima, per il suo esser vuota, come se l’assenza d’ogni persona, il deserto d’umanità, potesse davvero esaltare le pietre, relitto d’un passato che senza presente diventa nulla poiché nessuno può vederlo, nessuno lo ricorda, e così sparisce anch’esso, insieme alle persone.
Quelle pietre, insomma, così sole adesso parevano morte, e morta così l’estrema bellezza di questa città, la più monumentale e splendida di tutte, città amatissima sì, ma perché fatta anche di carne, non soltanto di pietra e di sole. E senza quella carne, tutto è apparso fuori posto, persino il suo cielo indeciso, bianco e inconsolabile come il vestito delle spose.
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