La legge sul diritto all’aborto quasi quarant’anni dopo
Sono le 5 di mattina quando arriviamo davanti all’ospedale San Camillo di Roma, centro di riferimento per la legge 194 della regione Lazio, il luogo a cui le donne si rivolgono per interrompere una gravidanza. La porta del reparto dà su un sottoscala aperto, con i muri scrostati e poche sedie, che velocemente si affolla di ragazze che aspettano le 8, quando le prime dieci arrivate potranno entrare e le altre saranno mandate a casa, senza appuntamento ma con la sola indicazione di tornare il giorno dopo, magari un po’ prima. Noi siamo in quattro, due ragazzi e due ragazze, e scendiamo a coppie fingendo di metterci in fila. Con il cellulare in mano proviamo a riprendere i dialoghi e chiediamo informazioni. Una delle ragazze ci dice che è arrivata alle 4, un’altra addirittura alle 3. Non è la prima volta che ci prova ed è stata già esclusa dalla lista.
E’ cominciato così il nostro viaggio per gli ospedali di Roma, alla ricerca di un diritto di cui ancora si parla sottovoce, pur essendo una legge dello Stato dal 1978. Una legge che, oltre al diritto delle donne di porre fine a una gravidanza indesiderata, permette anche a medici, ostetriche, infermieri e a tutto il personale sanitario di presentare una dichiarazione di obiezione di coscienza, che li esonera dall’effettuare questo servizio. Una dichiarazione, e non una domanda, perché l’obiezione di coscienza viene accettata senza alcun giudizio di legittimità.
La nostra inchiesta, Obiezione vostro onore, realizzata per il Premio Roberto Morrione, è nata dalla volontà di capire la reale portata dell’obiezione di coscienza sui diritti delle donne.
Secondo il ministero della salute, che ogni anno rileva i dati dell’obiezione e delle interruzioni, il problema non si pone. Con i medici non obiettori il servizio è garantito.
Eppure, anche leggendo quei dati ufficiali la situazione non ci sembrava priva di problemi.
Abbiamo parlato con le ginecologhe che a Roma tengono in piedi il servizio, visitato gli ospedali e parlato con le donne che hanno dovuto affrontare un aborto. Dai racconti emergeva la precarietà di un diritto poco accettato e, per questo, messo da parte con facilità.
Abbiamo voluto vedere i numeri, ma anche se si tratta di dati pubblici non è stato possibile averli in via ufficiale. Solo con l’aiuto di medici e infermieri, e ripetute telefonate e visite nei reparti di ginecologia, abbiamo potuto tirare le somme: a Roma 9 ginecologi su 10 sono obiettori di coscienza. E questa obiezione ha un prezzo, innanzitutto economico. Per sopperire alla mancanza di ginecologi gli ospedali sono costretti a ricorrere a medici a gettone, che coprono un turno di poche ore quotidiane in cui effettuano le interruzioni volontarie entro i primi tre mesi di gravidanza. Per l’interruzione detta “terapeutica”, che si chiede in caso di gravi malformazioni fetali o di rischio di vita per la donna, è necessario invece il ricovero ospedaliero e di conseguenza sono i ginecologi non obiettori a dover organizzare i propri turni di guardia per coprire le richieste.
C’è poi, come ci raccontano molte ginecologhe, un prezzo professionale per chi si dedica agli aborti, che spesso finisce per occuparsi solo di questo servizio, in alcuni casi malvisto dai colleghi.
E, infine, c’è un prezzo sociale, la totale assenza di un dibattito sull’aborto, relegato in un sottoscala perché, come ci dice Valentina, che ha 23 anni e ha interrotto una gravidanza, “le donne che abortiscono non si vogliono vedere”. E quindi anche le sperimentazioni per migliorare le tecniche non interessano, i giovani medici nelle scuole di specializzazione non sono formati sul tema, e una legge dello Stato, confermata da due referendum, diventa una legge per invisibili.
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