Perché i giovani non sono una minaccia: intervista ad Alberto Rossetti
Secondo Alberto Rossetti, psicoterapeuta e psicoanalista, le nuove generazioni fanno paura agli adulti perché non temono di mettere in discussione i valori e il funzionamento della società in cui vivono. Nel suo ultimo libro uscito a settembre 2019, I giovani non sono una minaccia. Anche se fanno di tutto per sembrarlo, l’autore riporta le riflessioni raccolte intervistando giovani dai 12 ai 17 anni a cui ha posto domande sul mondo che si trovano ad affrontare, su come vedono la realtà che li circonda e il rapporto con gli adulti.
Il quadro che emerge racconta la dispercezione che accomuna le parti, insieme alla lucidità dello sguardo degli intervistati su ciò che divide le due generazioni. Dalla lettura non possono emergere che delle domande: ecco le risposte dell’autore.
Nella tua analisi, i giovani sono etichettati come nullafacenti, apatici e disimpegnati a causa di un meccanismo di difesa degli adulti che cercano di proteggere le proprie abitudini di vita. Quali conseguenze credi che la protezione dello status quo possa provocare nei giovani?
Nella storia dell’essere umano questo gioco delle parti c’è sempre stato, l’adulto per definizione è portato più a conservare che a innovare, ma anche, a un certo punto, a cedere il passo ai più giovani. Nel tempo attuale, la crescita tecnologica e i ritmi di vita più elevati, però, rendono la differenza generazionale più evidente e questo comporta, come sempre, uno scontro. Trovo che a differenza del passato, i toni oggi siano tuttavia molto blandi allo scopo di rifiutare questo scontro, che però prima o poi è inevitabile. Un caso emblematico è quello di Fridays For Future, dove i giovani attaccano gli adulti e questi ultimi, pur non accettando spesso la critica, si mettono comunque dalla parte dei giovani. Un altro motivo che tende a deviare lo scontro può essere la sensazione diffusa che, se anche le risorse e le opportunità per i giovani sono in parte terminate, le nuove tecnologie portano occasioni inedite di espressione e di lavoro accessibili quasi esclusivamente ai giovani. In questo modo, rispetto agli adulti i giovani possiedono uno spazio proprio da cui i primi sono tagliati in parte fuori e lo scontro diretto è rimandato.
Sostieni che gli adulti devono prendersi “la responsabilità di sostenere la dialettica con i giovani” e che è necessario dare spazio all’ascolto della loro parola per sanare la frattura intergenerazionale che stiamo vivendo. Da cosa dipende questa frattura e in cosa consiste?
La frattura è dovuta al fatto che in ogni periodo storico le nuove generazioni parlano, ad un certo punto, lingue diverse rispetto a quelle di chi li ha preceduti. Negli ultimi decenni questi modi di esprimersi faticano sempre di più a comunicare e ci sembrano essere molto più distanti, aumentando la frattura. Cercare di comprendere cosa vogliono i giovani però spetta agli adulti, perché si trovano in una posizione di potere e di responsabilità in senso positivo: la lingua di chi viene prima ha molto da trasmettere, come la propria esperienza e i valori in cui chi l’ha parlata ha creduto. Il ragazzo prende questa testimonianza e ne fa qualcos’altro, questo è sano e normale. Il problema nasce se gli adulti non assolvono questo compito e se oggi percepiamo così tanto questa differenza fra le parti, allora significa che gli adulti non vogliono o non sanno trasmettere ciò che conoscono. Da quello che ho potuto constatare, invece, i giovani desiderano trovare un contatto con gli adulti, perché averlo significa essere riconosciuti. Affinché questo sia efficace, però, deve avvenire sotto forma di confronto e non di mera accondiscendenza.
A proposito di distanza fra giovani e adulti, in Italia l’accesso al mondo del lavoro – che in qualche modo può corrispondere anche all’ingresso nel mondo degli adulti – è da anni faticoso e spesso tardivo: credi che questo sia motivo di una sorta di ritardo di maturità nei giovani?
Credo solo in parte, il problema sta nel fatto che questo ritardo non è una scelta dei giovani, ma che si tratta di un cortocircuito in cui sono gli adulti a rimandare questo ingresso. Questa condizione crea così dei presupposti per etichettarli erroneamente come degli svogliati, per esempio, ma una società che non riesce a formare i propri giovani e poi a tenerli con sé non permette un ricambio, una spinta nelle aziende come nelle istituzioni e si immobilizza. Inoltre spesso l’accesso al mondo del lavoro prende delle strade ridicole, dove nuovi lavori e nuove formule per legittimarli non permettono davvero ai giovani di fare esperienza lavorative, penso soprattutto al caso dei rider, ma non solo. In questo modo si contribuisce a creare il divario generazionale, alimentato dal fatto che viviamo in una società dei consumi dove gli adulti non permettono ai giovani di avere accesso alle risorse e dunque di avere accesso al tipo di vita che loro possiedono.
Nel tuo libro parli anche del rapporto dei giovani con la politica, affrontando il tema della loro – presunta – disaffezione e sostieni che l’allontanamento sia dovuto per gran parte alla sua crescente personalizzazione. In particolare, osservi che il modo di comunicare dei leader sempre più tramite social ponga i politici sullo stesso piano dei giovani, a cui non viene proposto uno strumento alternativo per suscitare il loro interesse. Tuttavia scrivi che, sebbene “la politica faccia di tutto per allontanarsi dai giovani, i giovani continuano ad avere idee politiche”: in cosa consiste questo rapporto ambivalente?
Credo che da parte dei giovani ci siano modalità diverse di esprimere le proprie idee perché i mezzi di comunicazione sono cambiati, ma ritengo che il bisogno di politica, intesa come strumento per migliorare le cose, sia rimasto invariato rispetto al passato. Ciò che è stato interessante osservare intervistando i ragazzi è che la politica attuale ha scelto di fare show anziché svolgere la sua vera attività, ma che i ragazzi se ne sono accorti benissimo.
Quello che i giovani non sopportano è una politica mossa da logiche infantili, mentre preferirebbero dire la loro per risolvere problemi concreti. I sistemi partitici odierni sono lontani dal loro modo di interpretare la realtà e non è un caso che il MoVimento 5 Stelle, all’inizio, intercettasse molto l’interesse di giovani desiderosi di esprimere la propria voglia di fare. In questo senso la politica dei partiti è lontana dai giovani perché il concetto tradizionale di destra e di sinistra ha perso di significato per loro, diventando fuori contesto. Voglio dire che, se si continuano ad applicare alla politica categorie novecentesche troppo strumentalizzate, non si permette ai giovani di schierarsi. Ragionare con i giovani su ciò che nella realtà di oggi significano destra e sinistra permetterebbe di rendersi conto che queste categorie sono vive e che i giovani non vanno orientati dall’alto.
“Non è facile ascoltare i giovani, l’abbiamo detto diverse volte. Ma non si può pensare di chiedere loro di fare politica nel modo in cui gli adulti desiderano che essi la facciano”, scrivi. Di recente la proposta di allargare il diritto di voto ai sedicenni ha sollevato numerose critiche nei confronti della capacità dei giovani di essere investiti di questa responsabilità – non a caso un recente sondaggio ha messo in luce come la maggioranza degli Italiani sia contraria alla proposta – come interpreti questa posizione? Credi che far votare i giovani possa essere una forzatura da parte dagli adulti?
Credo che quella emersa dai sondaggi sia un’opinione mossa dalla paura degli adulti di affidarsi alle nuove generazioni e ci vedo molto egoismo, ma anche della superficialità. È una visione un po’ limitata perché non guarda alla possibilità che i giovani possano essere concretamente presenti nella vita politica con le proprie idee e con la propria partecipazione sul territorio.
I giovani devono essere responsabilizzati, è vero, ma gli adulti si devono interrogare sui criteri da loro utilizzati per farlo, troppo spesso dati per scontati. Credo che il diritto di voto, invece, possa davvero interessare i ragazzi e che possa essere un buon strumento di responsabilità. Dare ai sedicenni la possibilità di andare alle urne può rivelarsi costruttivo perché significa riconoscere loro uno spazio di espressione importante.
Di questa proposta temo il rischio di strumentalizzazione nei confronti dei nuovi elettori: dare il voto ai giovani deve essere una scelta volta effettivamente a farli partecipare, non ad intercettare le loro preferenze per poi inserirle all’interno della logica elettorale del consenso. Contro questo rischio, pertanto, il voto dovrebbe essere accompagnato sempre dal confronto e dalla preparazione.
Nell’ultimo capitolo del tuo libro si legge: “Gli adolescenti che non amano la politica show e che faticano a trovare dei beni comuni per cui lottare hanno le idee chiare sul fatto che l’essere umano debba essere posto al centro di ogni discussione politica”. Perché credi che per le nuove generazioni sia più difficile trovare dei beni comuni di riferimento? Come si può risolvere questa situazione?
Nel mondo liquido in cui viviamo schierarsi a favore di una certa causa appare più difficile rispetto ad un tempo. Inoltre l’impressione è che, in una società dove viene data molta attenzione all’Io e alla soddisfazione personale, credere in un bene comune risulta problematico, perché implica perdere qualcosa di proprio. Nella situazione di pseudo-crisi in cui ci troviamo, infatti, da una parte sembra che si debba affossare l’altro per emergere, mentre la politica show, che cambia forma di continuo e attira con i suoi programmi generalisti, non ci permette di capire quali idee i politici vogliano realmente sostenere e quindi anche le nostre scelte in merito possono faticare a sostanziarsi.
Forse una soluzione sta nel pensare alla preservazione della Terra come a un valore, qualcosa che oggi è in grado di esprimere un’idea potente di bene comune, e nel mettere da parte l’ego, presente in ogni contenuto che ci viene proposto. Penso che, anche se i giovani sono nati e cresciuti immersi in questo contesto, per natura siano comunque portati ad agire senza fare troppi calcoli di convenienza, anzi, rispetto agli adulti sono più portati alla condivisione perché non conoscono beni di proprietà, tranne in rari casi, e questo li rende più liberi e aperti a ciò che li circonda.
Mentre il mondo degli adulti dibatte e porta avanti le proprie battaglie, insomma, c’è chi li osserva fra perplessità e voglia di cambiamento, ma anche con curiosità, interrogandosi sullo strappo che allontana le parti. Trasformare il tessuto che lega giovani e adulti non sembra, tuttavia, un’impresa impossibile.
Alice Dominese
Membro della Redazione e del Team Public Affairs di Yezers
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