Nel lockdown abbiamo celebrato, non torneremo spettatrici in Chiesa
In questi due mesi nei quali i credenti non hanno potuto celebrare i propri culti, noi cattolici – a differenza di tanti altri fratelli e sorelle di altre religioni e confessioni – abbiamo strepitato, ci siamo arrabbiati e sdegnati, abbiamo parlato di attentato alla libertà religiose, ma soprattutto abbiamo fatto quello che ci riesce meglio: ci siamo divisi. Divisi ulteriormente tra tradizionalisti e progressisti, tra quelli che “senza Messa non si vive” e quelli che “adesso che abbiamo capito che si può essere cristiani senza andare a Messa tutte le domeniche chi ci vede più”, insomma le nostre fazioni si sono rinforzate e i teologi di entrambi gli schieramenti hanno affilato le armi della disquisizione, a volte fino ai limiti dell’incomprensibile. Nel frattempo alcuni hanno cercato di cogliere l’occasione per costruire: celebrazioni domestiche, piccole comunità informali radunate nella lettura della Parola di Dio attraverso zoom, skype o qualsiasi altro mezzo.
Alcuni di questi sono tornati a Messa questa domenica, altri no. Alcuni non l’hanno fatto per paura, altri per lasciare il posto a chi poteva desiderarlo di più, altri ancora perché lo spettacolo dato dalle alte gerarchie cattoliche in questi tempi gli ha fiaccato l’animo.
Quando domenica scorsa il Presidente della CEI, cardinal Bassetti, ha detto che grazie alla riapertura delle Messe al popolo “il Signore è tornato in mezzo a noi” è stato chiaro che qualcosa non tornava. In tante case questi mesi sono stati mesi tutt’altro che vuoti della presenza del Signore, anzi sono stati occasioni di riscoperta della preghiera in famiglia, abbiamo sperimentato la responsabilità che se l’annuncio pasquale non fosse salito dalle nostre case, il silenzio avrebbe coperto l’Alleluja. Per la prima volta siamo stati chiamati a diventare protagonisti assoluti della nostra fede, senza deleghe possibili, un’occasione unica per approfondire finalmente la vocazione che tutti abbiamo ricevuto nel Battesimo, quando in Cristo siamo diventati re, profeti e sacerdoti.
Sono stati anche mesi di preghiera e di comunione con quanti soffrono, qui e nel mondo per infiniti motivi (non solo il covid), forse per la prima volta davvero consapevoli di quanto siamo tutti legati gli uni agli altri.
Per le donne credenti è stata soprattutto l’occasione di sperimentarci celebranti, nelle nostre famiglie e nelle preghiere organizzate da vari movimenti cattolici, che fanno capo alla rete del Catholic women’s council, che raduna associazioni e gruppi di donne cattoliche in tutto il mondo.
Con una funzione pasquale, una preghiera settimanale e una in programma questa domenica per Pentecoste, come donne abbiamo rafforzato la nostra unione e la consapevolezza di essere sacerdotesse nel battesimo. Ho nel cuore le parole di un’amica australiana che, durante una delle nostre riunioni organizzative, diceva con le lacrime agli occhi “mi angoscia pensare di dover tornare in Chiesa, a ritrovarmi spettatrice in questo spettacolo patriarcale, dopo mesi di bellissime celebrazioni familiari, pensate e preparate con cura da me e mio marito insieme”.
Le femministe cattoliche rappresentano oggi uno dei maggiori fermenti, una delle realtà più vivaci e dinamiche della Chiesa, ma anche una delle più controverse, basti pensare alla recentissima autocandidatura a vescovo di Lione della teologa Anne Soupa. Guardate con disgusto dai settori tradizionali e molto clero, sono ammirate, ma temute e con la costante tensione ad addomesticarle, da gran parte dei settori progressisti. I veri amici nel clero sono pochi, benchè preziosi. Eredi di una tradizione “alta” e colta, ma poco capace di movimentare dal basso, oggi abbiamo imparato a camminare senza chiedere permessi e a costruire modalità nuove di fare comunità, nelle quali sperimentare già ora l’uguale dignità di tutti.
Lo scorso sabato 23 maggio, l’associazione Donne per la Chiesa che presiedo, ha vissuto il suo primo convegno nazionale, online, con migliaia di persone a seguirlo, chi in diretta su zoom e FB, chi in differita.
Pur essendo per ora una minoranza a mettersi in gioco per cambiare le cose, il malessere generato da una chiesa patriarcale e di conseguenza clericale, è molto diffuso e per questo è sufficiente accendere una miccia per vedere la luce propagarsi, da una donna all’altra, da una generazione all’altra.
In Germania l’incendio è ormai acceso, lo sciopero dell’anno scorso promosso dal gruppo Maria 2.0 è stato accolto con gratitudine dalle cattoliche tedesche di tutte le età e la loro azione prosegue e ormai sono i vescovi ad inseguirle chiedendo di voler interloquire, temendo di perderle. Non viceversa.
In Italia c’è ancora un grande lavoro da fare, tanti veli da togliere, paure da rimuovere. In questo nostro Paese all’ombra del cupolone e con una conferenza episcopale che in questa crisi sembrava preoccuparsi più di ogni altra cosa del mantenimento economico e di status dei preti, è difficile parlare con vera libertà. Qui anche solo dire che impedire l’accesso delle donne all’ordinazione è: contrario a qualunque principio di parità, è incostituzionale (art.3), ha basi teologiche e bibliche fragilissime, storicamente è controverso… sembra una bestemmia da fa tremar le vene ai polsi. E invece è solo una goccia nel mare del clericalismo, il grande male che Papa Francesco denuncia, ma non recide dalla radice.
Il problema fondamentale è che l’annuncio liberante di Gesù Cristo è diventato un’istituzione con la sua casta, i diversi gradi di accesso al mistero, un insieme di regole che formalizzano fin alla più minuta e sacra delle scelte individuali, soprattutto per le donne: ci viene detto come vivere la sessualità e perfino la nostra salute… la congregazione per la dottrina della fede ha scritto poco tempo fa un documento sui casi in cui è legittimo che una donna faccia un’isterectomia totale, si scrivono documenti per “insegnare” alle suore come devono utilizzare internet, e via così in un numero interminabile di possibili esempi. Come ebbe a dire Doris Wagner in una conferenza a Roma lo scorso ottobre: la Chiesa Cattolica è “un sistema a due stati, in cui il clero ha il rango di sovrano mentre noi laici ci qualifichiamo come plebei”. In tutto questo le donne, idealizzate e celebrate finché sono statue di legno negli amboni laterali, o quando muoiono di parto, sono semplicemente spettatrici e funzionali laddove serve. E quando ad alcune è permesso di entrare – per bontà maschile – nelle stanze del sapere o del potere ecclesiale, temono di rendersi grimaldello per far entrare le altre e finiscono per tenere per sé, con gratitudine, il poco spazio che è stato loro elargito. Così le donne più obbedienti e funzionali accumulano incarichi, ben guardandosi dal mettere in discussione alcunché e così facendo si fanno armi nelle mani degli uomini che vogliono depotenziare la lotta per la parità.
Ma le donne sanno anche unirsi e quando lo fanno diventano potenti.
Questi mesi lontani dagli altari ci hanno restituito molto della nostra dignità battesimale e non va dispersa, perché “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Matteo 18:15 -20) e quei due o tre sono fratelli e sorelle, tutti impegnati nel celebrare con le nostre povere forze e poverissima fede… senza delegare a qualcuno di celebrare per tutti dall’altare. Tornare a Messa è una gioia, ma se si traducesse nel ridurre ancora una volta il popolo di Dio a spettatore, considerando questi mesi passati come una parentesi vuota da dimenticare in fretta sarebbe un peccato, nel senso proprio del termine, un’occasione sprecata e per questo triste e miope. Noi donne non ricominciamo, andiamo avanti.
Se non ci troverete al solito banco, ora sapete perché.
Un commento
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complimenti! Bell’articolo, coraggioso. Spero che le donne la seguano numerose