Questioni di genere
La violenza istituzionale che separa madri e figli
Lo chiamano femminicidio in vita. È quello che provano le madri sopravvissute alla violenza dei loro compagni quando rischiano di perdere o perdono l’affidamento dei loro bimbi. Sono donne che hanno subito abusi, ritorsioni, molestie, aggressioni e hanno trovato in qualche modo la forza di dire basta, cercando di uscire da un vortice che ha provato ad annientarle. Quando però si separano dai loro aguzzini e si ritrovano nelle aule dei tribunali, rischiano di essere divise dai loro figli che hanno protetto.
Marta*, mamma di Venezia, è una di loro. Ricorda tutto. Il primo schiaffo ricevuto in pieno volto. Le parole di scherno che l’hanno annichilita a lungo fino a farle pensare di non valere più niente. Ma ricorda anche quando ha preso il coraggio ed è riuscita a dire basta dopo che la sua piccola di sei anni l’ha abbracciata forte e le ha detto: “Mamma la prossima volta ti proteggo io”. «Ho trovato la forza di denunciare, ma non è stato sufficiente» racconta. Quando Marta ha lasciato il marito, lui l’ha minacciata dicendole che le avrebbe portato via la figlia. L’uomo l’ha trascinata in tribunale e ora questa mamma sta rischiando di perdere l’affidamento della sua bimba a causa di una consulenza tecnica d’ufficio, stilata da dei periti nominati dal giudice, in casi come questo sono psicologi o psichiatri, che scatta quando viene messa in dubbio la capacità genitoriale. La violenza domestica, che Marta ha subito per anni a cui la bambina ha assistito, non è stata presa in considerazione. «Sono stata accusata di non essere una buona madre perché la bimba rifiuta di stare con il padre. È costretta a vederlo ed è terrorizzata. Mi dice che è molto aggressivo con lei e la mette sempre in castigo – confida Marta – Siamo sprofondati di nuovo in quell’incubo che abbiamo vissuto per anni» spiega con la voce rotta dalla disperazione.
L’accusa imputata a questa madre ha un nome: alienazione parentale o PAS. Una teoria molto controversa elaborata dallo psichiatra americano Richard Gardner che non è mai entrata nel Dsm, Manuale diagnostico dei disturbi mentali. Bocciata più volte nelle sentenze della Corte di Cassazione, non è riconosciuta dal Ministero della Salute, continua però a comparire durante i processi per separazione, specialmente quelli che riguardano le donne che hanno subito violenza a cui viene diagnosticata questa forma di presunto disturbo psichico. In questi casi sono le madri a essere sotto accusa. Secondo questo costrutto, manipolerebbero i figli spingendoli a rifiutare i rapporti con l’altro genitore. Senza tenere conto del fatto che i bimbi, in queste situazioni, assistono alla violenza del padre e possono averla persino subita.
È uno dei volti della violenza di genere. Viene chiamata violenza istituzionale. Quella che si sposta dalle mura domestiche e, imperterrita, arriva nelle aule dei tribunali di tutta Italia attraverso magistrati, avvocati, consulenti tecnici, servizi sociali. Una violenza che si accanisce sulle donne sopravvissute ad abusi e molestie. Non ci sono stime ufficiali, ma basta chiedere ai centri antiviolenza: sono tantissime le madri che fuggono dai maltrattamenti e poi chiedono aiuto agli sportelli legali e si ritrovano di nuovo a combattere per proteggere i propri figli. Sono donne di età diversa e appartengono a ogni ceto sociale. Secondo le analisi della Banca Dati Eures, che ha elaborato il rapporto “Il femminicidio in Italia nell’ultimo decennio”, le donne sono l’81,6% delle persone che nel nostro Paese subiscono maltrattamenti in famiglia. Nel rapporto dell’ultima audizione dell’Istituto Nazionale di Statistica, alla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, condotto dalla dottoressa Linda Laura Sabbadini, diffuso lo scorso novembre, emerge che: “le separate o divorziate risultano essere un segmento particolarmente a rischio di violenza da parte dell’ex partner: il 36,6% infatti è stata vittima di violenza fisica o sessuale da parte del coniuge o convivente da cui si sono separate.
Il 65,2% delle donne separate e divorziate aveva figli al momento dei maltrattamenti, che nel 71% dei casi hanno assistito alla violenza e nel 24,7% l’hanno subita. Oltre la metà di queste donne ha dichiarato di aver avuto paura per la propria vita o quella dei figli. «Riceviamo continue richieste di aiuto» dice Simona d’Aquilio, avvocata del foro di Roma, insieme alla collega Michela Nacca e a Maria Grazia De Benedictis ha fondato l’associazione Maison Antigone che supporta le donne vittime di violenza istituzionale.
«Stiamo constatando che l’alienazione parentale è sistematicamente utilizzata come strumento in ogni causa di separazione dove c’è un uomo violento – asserisce D’Aquilio – Quasi in automatico diventa la difesa del maltrattante perché in questo modo la violenza che ha inflitto viene occultata. La mamma e il bimbo non vengono creduti, mentre le denunce per maltrattamenti sono ritenute inventate e false anche in presenza di referti del pronto soccorso e se l’uomo è stato rinviato a giudizio per quei reati. Una strategia, quella di non far entrare i procedimenti penali nel processo civile, a cui cerco sempre di oppormi».
Queste madri si ritrovano ad affrontare nei tribunali una seconda rivittimizzazione. Non solo. È messa in discussione o revocata la loro capacità genitoriale: «È un problema che si è amplificato con la legge 54/2006 che ha istituito l’affido condiviso e stabilisce il diritto del minore a mantenere un rapporto continuato con ciascuno dei genitori. Può imporre, come succede in questi casi, una bigenitorialità forzata. In condizioni normali – precisa l’avvocata – è giusto che il bimbo stia anche con il papà, ma se c’è stata violenza non è possibile imporre a un bambino di vedere il padre maltrattante». La violenza viene così derubricata a conflittualità: «Non è la stessa cosa – chiarisce D’Aquilio – Subire violenza significa essere sottoposte a dei comportamenti senza riuscire a difendersi. Non c’è scontro, ma prevaricazione». Da vittime le donne con la violenza istituzionale diventano imputate: «È una caccia alle streghe. Bisogna trovare l’alienazione a ogni costo e le donne per questo vengono messe sotto accusa. Non basta. Dopo si arriva a dire alle madri che devono aiutare i bimbi a recuperare il rapporto con il padre che ha agito violenza. Se non riescono a ripristinare la relazione, sono considerate madri cattive ed ecco la “prova” dell’alienazione parentale. Nei casi più gravi perdono i figli che vengono affidati al padre o collocati in delle case famiglia. La massima vendetta possibile per un violento» afferma l’avvocata.
Sono bimbi che perdono la loro quotidianità. Sono sottoposti a traumi indicibili. Vengono allontanati da un giorno all’altro dalle loro madri che hanno cercato di proteggerli. È capitato anche ad Anna*, una donna della provincia di Lecce. Il suo ex compagno la picchiava senza tregua, a volte anche in presenza del loro bimbo. Un giorno lui è arrivato a rompere il naso del piccolo. Dopo la separazione l’uomo ha dato ad Anna una spinta talmente violenta, che, cadendo, si è procurata lesioni tali a una gamba da essere considerata invalida al 55 percento. Anna è stata giudicata dal tribunale una madre “malevola” perché avrebbe impedito un sereno rapporto padre-figlio, nonostante il bimbo avesse manifestato timore e paura nei confronti dell’uomo. Il giudice ha deciso che era prioritario recuperare il rapporto padre-figlio e li ha inseriti entrambi in una comunità: «Il bambino è stato strappato dalla sua mamma, dalla sua casa di punto in bianco – dichiara l’avvocato Francesco Miraglia che difende la donna – Le relazioni dei periti del tribunale affermano che questa mamma, oltre ad essere madre amorevole, mai si è frapposta tra l’ex compagno e il loro figlioletto. È un’educatrice e conosce bene l’importanza della relazione tra un bambino e il proprio genitore. Eppure è stata privata del suo bimbo, costretta a vederlo solo nel corso di incontri protetti».
Sono i pregiudizi patriarcali che si abbattono sulle donne:« Il perché – spiega Elvira Reale, psicologa e presidente dell’Associazione Salute Donna – è nella ragione stessa della violenza contro le donne. Un problema strutturale della nostra società. La parola di un uomo ha più valore di quella di una donna che è ancora considerata come un soggetto suggestionabile, preda delle sue emozioni, che tratta il figlio come prolungamento di sé e non gli permette autonomia, è rancorosa e malevola.
Il gioco è fatto, la struttura del discorso della CTU è questa e convince il tribunale. Al di là di ogni ragionamento e contraddittorio, perché sposa tutti i pregiudizi di genere sulla donna che una volta avuto il figlio “ripudia l’uomo dalla scena familiare”».
Veronica Di Martino, madre che abita in provincia di Napoli, sta protestando davanti al municipio della sua cittadina. Le sono stati sottratti i suoi tre bambini, perché secondo una CTU sono a rischio di alienazione parentale. Può vederli una volta alla settimana per un’ora in una biblioteca.
«Proprio su questo caso – dice Veronica Giannone, deputata del Gruppo Misto e Segretaria della Commissione Bicamerale per la tutela dell’infanzia e dell’adolescenza, è lei che ha presentato al Ministero della Giustizia un’interrogazione parlamentare sulla vicenda e si sta muovendo anche per altre madri, – il Ministero ha risposto che “la giurisprudenza è pressoché unanime nel non riconoscere la validità scientifica alla sindrome da alienazione parentale”, ma questo costrutto continua ad entrare nei tribunali attraverso corsi di formazione in cui si insegna a riconoscerlo. Sono eventi formativi che spesso attribuiscono dei crediti per gli iscritti agli ordini forensi e agli ordini degli psicologici. Ci sono manuali, libri su cui formarsi. Manca forse il controllo da parte del Ministero dell’Istruzione e di quello della Salute. Se l’alienazione non è riconosciuta a livello scientifico, non deve essere insegnata e applicata».
Giannone ha chiesto iniziative ispettive nei tribunali e sta lavorando a una modifica della normativa sugli affidi. Serve un registro nazionale e occorrono norme più efficaci che tutelino i diritti dei bambini. «Voglio essere chiara: dietro la PAS c’è misoginia. Dietro alcuni provvedimenti e alcune sentenze c’è odio verso le donne. Non solo in ambito di affido dei minori, ma anche in caso di violenza e femminicidio. – afferma l’onorevole Laura Boldrini, deputata del Partito Democratico, – Se il patriarcato esiste, è perchè ancora oggi, nel terzo millennio, non si accetta fino in fondo il percorso che le donne hanno fatto nella società. Con l’Intergruppo Donne, un gruppo trasversale composto da 69 deputate di vari schieramenti politici, pianifichiamo azioni per promuovere l’uguaglianza di genere e l’empowerment femminile. Tutte insieme stiamo lavorando per individuare misure di contrasto efficaci contro l’alienazione parentale. Va vietata in tutte le sue manifestazioni e possibli formulazioni che vengono usate e che sono riconducibili al costrutto ascientifico che inchioda, a volte senza scampo, le madri».
Perché l’alienazione parentale sta cambiando forma, ma non la sostanza. «Nei tribunali non si parla più di PAS o di alienazione parentale, ma di “disturbo della relazione”- sostiene Bruna Rucci, psicologa, psicoterapeuta e consulente tecnica – Adesso invece che madre alienante, vengono utilizzati sinonimi che riportano all’alienazione senza citarla direttamente. Le mamme diventano quindi “simbiotiche”, “assorbenti”, “adesive”». Il risultato è lo stesso: le madri sono accusate dalle Ctu di ostacolare la relazione padre figlio, l’attenzione è spostata dal maltrattante alla donna che ha subito violenza: «Questa terminologia è frutto di quella che io chiamo psicologia nera – spiega Rucci – Una junk science, scienza spazzatura, che si basa sulla psicologia giuridica e non ha niente a che vedere con la psicologia clinica e scientifica fondata sulle neuroscienze o sulla teoria dell’attaccamento di Bowbly o Winnicot che consideravano la relazione madre – figlio insostituibile e basilare per lo sviluppo psicofisico del bambino. Diversi studi internazionali hanno stabilito che lo sviluppo cerebrale di un bimbo è diverso se allontanato dalla madre. C’è una sorta di centralina del cervello, l’ippocampo, che si può sviluppare fino a un terzo in meno se il bambino viene allontanato dalla mamma».
Persino l’allattamento è messo in discussione: «Mi è capitato un caso – afferma Rucci – di una madre decretata simbiotica e depressa perché allattava il figlio. Era un escamotage, secondo la Ctu, per allontanarlo dal padre “perché una mamma che allatta un bimbo è insostituibile”». Lucia* è una madre della provincia di Roma che ha affrontato la sua gravidanza da sola. È stata abbandonata dal compagno violento che voleva costringerla ad abortire. Quando la piccola ha compiuto un anno e mezzo, l’ex compagno è rimpiombato nella sua vita e l’ha portata in tribunale per il riconoscimento della piccola. «La CTU mi ha reputato madre non idonea perché “ostativa”, ossia secondo il consulente tecnico non ho saputo promuovere in maniera adeguata il rapporto padre figlia. Quando ho raccontato le violenze che ho subito dal mio ex compagno sono stata derisa. La mia bambina, che ora ha cinque anni, è stato dichiarata inattendibile anche se urla, si dispera quando deve andare dal padre. Si fa la pipì addosso perché ha paura. Mi racconta che lui la picchia. La può vedere senza alcuna supervisione» ammette sconfortata Lucia. «I diritti dei bambini sono calpestati – evidenzia la psicologa Rucci – Questi piccoli sono davvero terrorizzati e raccontano cose atroci che hanno visto o subito. Non vengono creduti, ma sono considerati manipolati dalle madri, senza tenere in alcuna considerazione le motivazioni per cui non vogliono vedere i padri e senza che siano analizzate le competenze genitoriali paterne».
A constatare che il nostro Paese abbia da tempo un problema su questo fronte è stato il comitato CEDAW dell’Onu (Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna). Nel 2011 aveva invitato lo Stato Italiano ad arginare l’utilizzo nei tribunali della “discutibile teoria dell’alienazione parentale” soprattutto nei casi di violenza domestica e abuso sui minori. Sempre nel 2011 l’Italia ha ratificato la Convenzione di Istanbul che chiede a più riprese di fornire protezione “per garantire che, al momento di determinare i diritti di custodia e di visita dei figli, siano presi in considerazione gli episodi di violenza” e vieta la mediazione familiare, come invece era previsto dal DDL Pillon, archiviato nel settembre scorso. Il 13 gennaio 2020 il GREVIO, organismo indipendente del Consiglio d’Europa che monitora l’applicazione della Convenzione di Istanbul nei Paesi che l’hanno ratificata, ha pubblicato il primo rapporto per quanto riguarda l’Italia. Le esperte che l’hanno stilato hanno espresso una grave preoccupazione per tutto quello che accade nei procedimenti giudiziari quando sono coinvolti donne e minori vittime di violenza.
«Sono in serio pericolo tutti quei bimbi che finiscono nel tritacarne dei tribunali. È un numero inferiore al 10% delle separazioni e dei divorzi non consensuali, ma al 90% in questi casi c’è violenza domestica – afferma Maria Serenella Pignotti, pediatra, medico e legale e autrice del libro “I nostri bambini meritano di più”(ed. Libellula) – I bambini considerati alienati vengono sottoposti a delle “terapie” non approvate dalla comunità scientifica che vanno contro tutte le convenzioni internazionali per la protezione dei più piccoli. Sono veri e propri abusi istituzionali sull’infanzia. Ad esempio il “resetaggio”, quando i bambini vengono strappati via dai loro affetti, dalla loro casa per cancellare ogni tipo di legame con la madre, poi sottoposti a psicoterapie mai chiarite. Il distacco dai loro ambienti e dai loro affetti e la reclusione in luoghi con persone sconosciute arrecano gravi traumi che provocano ripercussioni a lungo termine a cui si sommano i danni della violenza assistita con impatti sullo sviluppo fisico, cognitivo e comportamentale».
Oltre ai traumi, agli abusi che, in questi casi subiscono madri e figli, c’è un altro frangente di cui tenere conto. «Ci sono vari esborsi economici per quanto riguarda le separazioni in condizioni di violenza. La donna entra in tre procedimenti: civile, penale e, se ci sono bimbi, minorile. I costi vanno moltiplicati – sottolinea Alessandra Menelao, Responsabile Nazionale dei Centri di Ascolto Uil Mobbing e Stalking contro tutte le violenze – Non ci sono solo i costi legali. Ce ne sono altri ulteriori che vanno ad aumentare le spese per questi processi. Non è ammissibile che una donna si debba indebitare per difendersi da un uomo violento. Le donne devono poi sottoporsi a delle consulenze tecniche che prevedono un esborso di svariate migliaia di euro in cui spesso viene dichiarata una patologia o un comportamento inesistente come l’alienazione».
“Ero entrata nel tribunale per separarmi e denunciare la violenza. Ne sono uscita come una donna disturbata e una madre pericolosa”. È la scritta che campeggia nella maglia dell’associazione “Femminicidio in vita” un comitato di mamme, la cui referente è l’attivista Imma Cusmai, che hanno perso o rischiano di perdere i propri figli nei percorsi giudiziari sull’affido. A novembre hanno manifestato davanti alla Corte dei diritti dell’uomo a Strasburgo, a Febbraio invece saranno a Bruxelles, davanti al Parlamento Europeo.
Le madri vittime di violenza istituzionale non si arrendono e lottano, cercano avvocati e consulenti tecnici che le possano aiutare. Gridano giustizia.
Si riuniscono in gruppi Facebook dove si danno forza a vicenda e raccontano le loro storie. Laura Massaro ha urlato sui social il suo dolore, è scesa in piazza con megafono e striscioni per farsi sentire. Accusata di essere una madre alienante, ha rischiato di perdere l’affidamento del suo bimbo a causa di un decreto di allontanamento, emesso dal Tribunale dei Minorenni di Roma, che aveva disposto il collocamento del minore dal padre, ma la Corte d’Appello ha accolto il ricorso proposto dall’avvocato Lorenzo Stipa, legale di Massaro. Una sentenza destinata a fare giurisprudenza. La Corte ha stabilito che il principio di bigenitorialità non può essere considerato astratto, ma deve tenere conto dell’interesse del minore, in questo caso un bimbo che non voleva essere allontanato dalla madre.
Laura Massaro insieme ad altre mamme ha dato vita al Comitato delle Madri Unite contro la Violenza Istituzionale che sta preparando un report per testimoniare quanto sia diffuso e grave il problema della violenza istituzionale: «Hanno risposto al nostro sondaggio circa 200 donne», rivela Massaro. «Tra i grandi problemi che abbiamo constatato c’è l’alto tasso di archiviazione delle querele anche di fronte a prove e referti. La denuncia tanto sollecitata dalle istituzioni diventa in tribunale un boomerang perché la donna non è tutelata e passa per mitomane, vendicativa. Pregiudizi che servono a incasellarla come alienata».
Queste madri non si scoraggiano. Resistono e non smettono di chiedere giustizia. Come Ginevra Amerighi che spera di poter riabbracciare la sua piccola che le è stata portata via quando aveva solo diciotto mesi. Non ha più notizie di lei da più di otto anni. Non ha una sua foto, non può più sentire la sua voce, non la può più abbracciare e coccolare. Nonostante il padre della sua bimba sia stato condannato per lesioni in primo grado, la piccola è ancora affidata in via esclusiva a lui. Anche in questo caso è stata una CTU a emettere un responso che si è trasformato poi in una vera e propria sentenza. Con la perizia le è stato diagnosticato un disturbo istrionico della personalità con l’ipotesi di una possibile e futura alienazione parentale. Ginevra che ora abita a Lipari, maestra elementare, ha avuto il coraggio di non arrendersi. Ogni giorno questa madre pensa a quel terribile momento in cui le hanno portato via la sua bambina. Sta sfoderando tutta la forza di cui è capace, spera un giorno di riabbracciare la figlia. Lo fa per la sua piccola. Una bimba che ora è orfana di madre in vita.
*nome di fantasia
L’inchiesta è stata conclusa a gennaio 2020
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