Questioni di genere

La ripartenza post covid? Dalle donne, con le donne, per le donne

30 Giugno 2020

Dopo i mesi della paura e della chiusura, ancora in balia dell’incertezza, in tanti si stanno chiedendo come ripartire dopo la pandemia, per recuperare i nostri spazi e le nostre vite. Sarebbe auspicabile avere degli obiettivi chiari e ambiziosi, per provare a rimetterci in piedi su una strada magari un po’ più virtuosa di quella che stavamo percorrendo quando il virus è entrato prepotentemente nella nostra quotidianità. Sono in molti a dire che non bisogna tornare alla vecchia normalità, perché quella normalità era il problema.

Di sicuro la normalità era un problema per molte, troppe, donne. Credo però che durante la pandemia sia emerso chiaramente come il contributo delle donne alla nostra società sia fondamentale e sottovalutato.

Durante i mesi del lock-down, lontano dai riflettori e dalle prime pagine dei giornali, sono state le donne a farsi maggiormente carico della forzata clausura domestica. Nessuno usciva più a cena, gli aiuti domestici (per chi li aveva) non c’erano più, e proprio le donne hanno visto aumentare ulteriormente la quota di lavoro domestico. I dati, precedenti a questa emergenza, mostrano che in media in Europa una donna  compie 26 ore settimanali di lavoro di cura non retribuito contro le 9 di un uomo. Al carico “classico” negli ultimi 3-4 mesi si è aggiunto il supporto alla didattica a distanza per chi ha figli, che nel caso di bambini della scuola primaria è stato un impegno di parecchie ore al giorno. Le madri hanno dovuto ricorrere a ferie e congedi per riuscire a gestire i figli a tempo pieno e credo che il governo abbia sottovalutato (oppure intenzionalmente ignorato) il legame profondo tra la riapertura degli uffici e la chiusura delle scuole.

I dati pubblicati in settimana sull’uscita dal mercato del lavoro di 37 mila donne nel 2019 ci hanno preoccupato, e temo che dovremo aspettarci dati ancora più alti per il 2020. L’impossibilità per le donne di conciliare lavoro e famiglia è uno dei problemi più gravi della nostra società e non c’è più tempo da perdere, anche perché stiamo sprecando da anni e anni punti preziosi di PIL e capitale umano lasciando a casa donne istruite e perfettamente in grado di partecipare alla vita produttiva del paese.

Credo che il legislatore, forte della sperimentazione forzata di questi mesi passati, debba introdurre strumenti di flessibilità a disposizione e a tutela delle donne per permettere loro di scegliere, almeno per alcuni anni, il giusto mix di lavoro in presenza, a distanza e di congedo senza temere di essere emarginate e bloccate nelle loro aspirazioni di carriera.

Spero che questi mesi di pandemia ci abbiano insegnato che non esiste un solo modo di essere presenti e produttivi e che questo possa permettere di prestare maggiore attenzione ai bisogni di tutti. La pandemia, per esempio, unita alle preoccupazioni per l’emergenza climatica ha ridotto drasticamente le trasferte di lavoro che troppe volte venivano lasciate sul tavolo dalle donne perché era complicato assentarsi spesso e per più giorni dalla famiglia. Forse ora alcune opportunità di carriera non saranno più precluse a causa dell’indisponibilità a viaggiare di frequente.

Per sfruttare al meglio le opportunità di questo periodo di cambiamento servirà però una maggiore diversità nella stanza dei bottoni, non per una questione di mera rappresentanza formale ma perché esperienze di vita diverse offrono una lente particolare spesso più adatta a risolvere alcuni problemi.

Pensiamo ad esempio alla probabile rivoluzione del sistema dei trasporti urbani. Se effettivamente i centri delle nostre città vedranno arrivare una percentuale molto ridotta di pendolari, l’obiettivo non sarà più solo quello di portare persone dalla periferia al centro e ritorno ma anche offrire opportunità a chi ha bisogni multi-stop nei vari quartieri. Le donne infatti sono coloro che in una giornata tipo fanno quelle che in gergo sono chiamata trip-chain (casa, scuola, ufficio, scuola, piscina, nonni, negozi, casa) ma che spesso non sono prese in considerazione dai vari assessorati ai trasporti i cui uffici sono occupati prevalentemente da uomini.

In generale perché il mondo inizi ad essere più attento ai bisogni femminili servono più donne nelle sedi legislative, e questo processo che è sicuramente iniziato sta procedendo troppo lentamente per cui ben vengano quote e iniziative di affirmative action. I detrattori di queste misure derubricano il tutto a “identity politics” sostenendo che una buona scelta di policy è buona in maniera neutra verso il genere. Anni e anni in cui “la taglia unica” era quella per un maschio alto 1,76 di 70 chili purtroppo ci hanno insegnato che per annullare certe diseguaglianze serve un’attenzione particolare alle differenze, e molto spesso le politiche donne ce l’hanno.

Infine, ma non per ultimo, molte donne leader si sono distinte per una gestione esemplare della pandemia nelle loro nazioni o nelle loro città. Penso a alle prime ministre Angela Merkel  e Jacinda Ardern  ma anche a Michelle Lujan Grisham (governatrice del New Mexico) e London Breed  (sindaca di San Francisco) .

Attenzione, sappiamo che una correlazione non implica una causalità, e che quindi può essere che le donne leader affrontino meglio le crisi pandemiche ma potrebbe benissimo essere che una società che sceglie di farsi guidare da una donna ha anche altre caratteristiche che permettono una migliore gestione delle crisi. Quale che sia la direzione di causalità, io non esiterei a imboccare quella strada.

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