Questioni di genere

10 donne che hanno rivoluzionato il mondo nel 2017

31 Dicembre 2017

Il 2017 potrebbe essere ricordato come uno spartiacque nei rapporti tra i generi, e nella storia dell’umanità. È iniziato con la “marcia delle donne” (secondo alcune stime la maggiore giornata di protesta nella storia degli Stati Uniti), quando milioni di donne sono scese nelle strade di numerose metropoli americane per protestare contro la campagna elettorale e le esternazioni del neo-presidente Donald Trump.

L’anno è poi proseguito con il coraggio delle “Silence breakers, le donne che per prime hanno rotto il muro di silenzio e omertà che per decenni aveva protetto alcuni tra i più potenti uomini del mondo dello spettacolo: su tutti il produttore cinematografico Harvey Weinstein. L’hashtag #MeToo, nato subito dopo l’esplosione del caso Weinstein, ha fatto sentire meno sole (e più forti) centinaia di migliaia di donne che, in qualche momento della loro vita, sono state molestate da un uomo. Da Los Angeles all’Italia, dalla Svezia all’Australia, il tema delle molestie sessuali è diventato (finalmente) centrale nel dibattito collettivo.

L’anno si è concluso con gesti di denuncia significativi come quello della campionessa di scacchi ucraina Anna Muzyčuk, che solo pochi giorni fa ha boicottato i campionati mondiali di Riyad, dove sarebbe stata obbligata a indossare l’abaya, la lunga veste nera e, in definitiva, a “sentirsi una creatura di seconda classe”. Il post in cui motivava la sua decisione ha ricevuto oltre 160mila like e quasi 75mila condivisioni.

Nel 2017 si è tenuto il primo G7 della storia con due capi di governo donna (Angela Merkel e Theresa May), e dell’apparizione sul proscenio globale di quattro nuove premier donna: la letterata ecologista Katrin Jakobsdottir, per la femminista Islanda; la giovane laburista Jacinda Ardern nella (quasi) altrettanto femminista Nuova Zelanda; la manager e politica omosessuale Ana Brnabić per la Serbia; l’economista Mercedes Aráoz per il Perù. Il 2017 è stato anche l’anno della terza Premio Pritzker donna (la catalana Carme Pigem) e dell’attribuzione del Nobel per la pace all’International Campaign to Abolish Nuclear Weapons (ICAN), guidata dalla giovane giurista svedese Beatrice Fihn.

Ancora, il 2017 è stato l’anno di film e serie tv di successo incentrati su personaggi femminili. Wonder Woman, il film diretto da Patty Jenkins, si è rivelato il film di supereroi con l’incasso più alto della storia, battendo il record stabilito dallo Spider Man del 2002. E la serie TV The Handmaid’s tale, ispirato al romanzo scritto nel 1985 della femminista Margaret Atwood, ha fatto incetta di Emmy Awards, ed è stato acclamato dalla critica (e per inciso, quest’anno il romanzo della Atwood è stato il libro più letto dagli americani).

Naturalmente questa è solo la punta (straordinaria) dell’iceberg. Il 2017, come ogni altro anno della storia umana, è stato l’anno di milioni di donne che, in tutto il mondo, hanno ottenuto risultati straordinari: nelle scienze e nelle arti, nella politica e nella difesa dei diritti umani, nell’imprenditoria e nello sport. Donne pronte a superare ogni difficoltà, e anche a correre rischi enormi; donne che in alcuni casi hanno pagato con la vita il loro impegno.

Ma a dispetto di tutto, nel 2017 le donne continuano a non avere, nella vita pubblica e nel mondo del lavoro, nell’accademia e nelle arti, il posto che meritano. Tanto è vero che sono regolarmente sotto-rappresentate nei media. Basti pensare che secondo il rapporto del Global Media Monitoring Project, nel 2015 le donne rappresentavano appena un quarto delle persone apparse sui giornali, in televisione e alla radio.

Ecco, quindi, 10 donne che quest’anno hanno rivoluzionato, ognuna nel suo ambito, il mondo (senza alcuna pretesa di esaustività, ça va sans dire…). Dalla scienza alla politica, dal giornalismo al cinema, nei posti che contano le donne continuano a essere meno degli uomini. Ma senz’altro il suono della loro voce si sta facendo sentire con sempre più forza. E questo è un bene per tutti, a prescindere dal genere.

Daphne Caruana Galizia

Era una delle donne più amate, e allo stesso tempo odiate, di Malta. La amavano i cittadini, che vedevano in lei una campionessa di legalità e giustizia, in un arcipelago che resta uno dei paesi più corrotti della UE. La odiavano i grandi evasori fiscali, il crimine organizzato, i faccendieri specializzati nel riciclaggio di denaro, i politici corrotti. Caruana Galizia era l’emblema del giornalismo d’inchiesta. Quello davvero coraggioso, che fa domande scomodissime e mette in crisi pure il lettore (che dopo aver divorato il post o l’articolo, inevitabilmente si domanderà: E io cosa posso fare contro tutto questo marciume?). Pungolava le coscienze dei maltesi, turbava i sonni dei disonesti. E a ottobre è stata uccisa, con un’autobomba. Messa a tacere nel modo più schifoso, in un 2017 insanguinato che ha visto 65 giornalisti uccisi in tutto il mondo. A parte la Siria, il paese più pericoloso per i reporter è il Messico. Dove quest’anno ne sono stati fatti fuori undici, tra cui Miroslava Breach. Colpevole di indagare sulle connessioni tra narcos e politici locali, e messa a tacere per sempre con otto colpi di pistola a marzo.

Maggie MacDonnell

La vincitrice del Global Teacher Prize 2017 (quasi un premio Nobel dell’insegnamento) è una donna che ha scelto di insegnare in uno dei luoghi più remoti e poveri dell’Occidente: Salluit, una comunità inuit sullo Stretto di Hudson, dove d’inverno la temperatura scende talvolta anche sotto i 30 gradi, e non esistono collegamenti terrestri con il resto del mondo (si può arrivare a Salluit soltanto in aereo). Qui, nel profondo Artico canadese, Maggie MacDonnell si batte ogni giorno per dare ai suoi studenti la miglior istruzione possibile. Ed è dura, durissima: nella comunità l’alcoolismo imperversa, il tasso di disoccupazione è alle stelle, si paga ancora il prezzo della colonizzazione europea. Quando questa giovane insegnante della Nova Scotia rurale è arrivata a Salluit, dopo cinque anni di lavoro in Africa, ha trovato una scuola in rovina, senza libri né matite. Ha subito capito che per aiutare i suoi studenti, doveva aiutare anche le loro famiglie: e ha deciso di prendersi cura di tutta la comunità, aprendo una palestra e una cucina, lanciando un programma anti-suicidi, rivitalizzando la cultura inuit, comprando libri e cibo per tutti. Grazie al premio (di cui MacDonnell ignorava persino l’esistenza), la scuola di Salluit ha acquisito notorietà globale, e i suoi studenti hanno potuto conoscere leader come Michelle Bachelet, la presidente del Cile che ha chiesto pubblicamente perdono al popolo indigeno Mapuche per i torti subiti dai cileni bianchi.

Chaima Lahsini

Il Nord Africa è spaccato. Mentre nell’Egitto del generale Al Sisi e nella Libia in preda al caos è in corso una vera e propria involuzione dei diritti umani, la Tunisia si conferma come il più progressista tra gli stati arabi: l’uguaglianza di genere è sancita dalla Costituzione, è stata approvata una legge contro la violenza maschilista, le donne musulmane possono finalmente sposare uomini di altre fedi. Il Marocco si trova invece a metà del guado. Per fortuna ci sono marocchine come Chaima Lahsini, giovane giornalista e femminista che ad agosto ha contribuito a organizzare importanti manifestazioni e sit-in in segno di protesta contro le violenze di genere. A spingere in piazza le marocchine, lo sdegno causato dal video di una ragazza picchiata e aggredita sessualmente da un branco di uomini su un bus di Casablanca, in pieno giorno. A Rabat sono state quasi 1700 le donne scese in strada per denunciare la sistematicità delle molestie sessuali subite dalle marocchine; tra loro, Lahsini, che con il suo lavoro coraggioso continua a difendere i diritti delle donne del Marocco (che non è propriamente un paese facile per i giornalisti…)

Marica Branchesi

Ad appena quarant’anni, è già una stella del firmamento scientifico. È Marica Branchesi, astrofisica di Urbino che pochi giorni fa Nature, probabilmente la più importante rivista scientifica del mondo, ha incluso nella lista dei 10 scienziati più influenti del 2017, insieme a pesi massimi come David Liu, un biologo specializzato nell’editing genetico o il genio della comunicazione quantistica Pan Jianwei. L’astrofisica, ricercatrice presso il Gran Sasso Science Institute, è uno dei membri chiave del team di ricercatori dietro il celebre progetto europeo Virgo: un grande interferometro costruito in provincia di Pisa per lo studio delle onde gravitazionali. Acclamata non solo per le sue competenze scientifiche ma anche per le sue capacità di coordinamento, diplomazia e leadership, Branchesi è il simbolo di una generazione di scienziate che sta dando nuova linfa alla ricerca italiana. Una splendida notizia, per la patria di Galilei, Fermi e Levi-Montalcini.

Elisabeth Moss

Alcuni la paragonano a una nuova Meryl Streep. In effetti, di talento ne ha da vendere. È l’attrice californiana che il pubblico italiano ha imparato a conoscere grazie a The West Wing (lei ricopriva il ruolo di Zoey, la figlia più piccola del presidente Josiah Bartlet), ma soprattutto grazie a Mad Men, la premiatissima serie TV che racconta le vicende di un gruppo di pubblicitari negli Stati Uniti del boom economico. Nel 2017 Moss ha interpretato Offred, la protagonista della già citata serie TV The Handmaid’s tale. Ed è proprio la sua bravura nel dare vita a personaggi femminili di grande spessore psicologico, lontani anni-luce sia dagli stereotipi dell’eroina “forte-ma-fragile”, sia da quelli della classica brava ragazza, a farne un’artista duttile in modo rivoluzionario. Le donne che interpreta sono complesse, intelligenti, autentiche, ma non aliene da dubbi ed errori; grintose, magari persino trasgressive, e tuttavia anche sensibili, delicate, dolci. Insomma, sono esseri umani.

Federica Mogherini

La Commissione Juncker è una delle più grigie che la storia europea ricordi, ma può contare su due donne di grandissimo spessore. La prima è Federica Mogherini. Quando il governo italiano la candidò come Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, nel 2014, pochissimi avrebbero scommesso su questa quarantenne romana che, come ministro degli esteri nel governo Renzi, non aveva particolarmente brillato. In molti erano sicuri che sarebbe stata la degna erede della baronessa Ashton, che in qualità di Alto rappresentante aveva potuto fare poco o niente (a causa dei veti incrociati dei vari paesi membri, in primis proprio il Regno Unito). Mogherini però ha stupito tutti. Lontana dai bizantinismi della politica italiana, è riuscita a gestire con maestria dossier caldissimi come l’Iran, l’emergenza migranti, i rapporti con la Russia. E se finalmente si sta formando un primo embrione di difesa europea, il merito è anche di Mogherini. Che possiede una dote rarissima nei politici della UE: sa comunicare. E in questi tempi di euroscetticismo dilagante, non è poco.

Margrethe Vestager

Quella di Vestager è probabilmente la poltrona più scomoda della Commissione Europea. Perché si occupa di un settore che è il cuore stesso della UE: il mercato. Dal 2014 a oggi il Commissario europeo per la concorrenza Vestager ha sfidato mezza Silicon Valley, multando alcuni tra i colossi digitali più potenti del mondo; ha turbato i sonni dei leader dell’Irlanda, paese famoso per la sua politica fiscale piuttosto corporate friendly; ha fatto della UE il faro globale della regolamentazione nel settore del digitale. Nella natia Danimarca quest’economista battagliera gode di una popolarità incredibile, tanto da aver ispirato anche una serie TV: Borgen, che ha come protagonista una tenace primo ministro. Nella vita reale Vestager non ha mai fatto il primo ministro, ma quasi: dal 2011 al 2014 è stata un potentissimo vice-primo ministro, gestendo contemporaneamente gli interni e l’economia. Ora molti la vedono come la presidente della prossima Commissione Europea; se riuscirà a centrare l’obiettivo, di sicuro porterà nell’ufficio più importante di Bruxelles l’oggetto che tutti i CEO e i giornalisti notano quando mettono piede nel suo luminoso studio di commissaria: una scaletta di legno… Perché “se una donna vuole andare in giro, deve portarsi dietro la sua scala”.

Chimamanda Ngozi Adichie

La Nigeria è da decenni una fucina di grandi scrittori: si pensi solo a Chinua Achebe, Wole Soyinka, Ben Okri… da un paio di decenni splende anche il sole di Chimamanda Ngozi Adichie, una delle autrici più lette, e amate, di tutta l’anglosfera. Romanzi come Ibisco viola e Americanah sono capolavori diventati ormai dei classici del XXI secolo: in essi Adichie racconta un paese, la Nigeria, di immensa complessità, durezza e bellezza, offeso dalla storia e ciononostante straordinariamente vitale; esplora l’intricatissimo tema della diaspora nigeriana; soprattutto, narra le vite di giovani donne e uomini che cercano, in un mondo spesso terribile, almeno un’ombra di felicità. Nel 2014 Adichie ha dato alle stampe Dovremmo essere tutti femministi, un saggio tanto breve quanto incisivo, che ha ispirato milioni di donne in tutto il mondo (inclusa Beyoncé). Quest’anno è stato invece pubblicato Cara Ijeawele ovvero Quindici consigli per crescere una bambina femminista. Al pari di un altro grande africano, Nelson Mandela, anche Adichie pensa che “l’educazione è il grande motore dello sviluppo personale. È grazie all’educazione che la figlia del contadino può diventare medico, il figlio di un minatore il capo miniera, o un bambino nato in una famiglia povera il Presidente di una grande Nazione”.

Tsai Ing-wen

Figlia di un meccanico, cresciuta in una famiglia affollatissima, la prima presidente donna di Taiwan è una self-made woman senza marito né figli, in un’isola ancora permeata di mentalità confuciana. La sua schiacciante vittoria elettorale nel gennaio 2016 è stata salutata da milioni di taiwanesi come il segno che qualcosa, nell’isola che fu del generalissimo Chiang Kai-shek, è cambiato per sempre. Progressista e forte sostenitrice dei diritti delle persone omosessuali, degli Aborigeni di Taiwan, delle donne, dei minori e dei poveri, a ottobre Tsai ha pure teso una mano a Pechino, invocando “una svolta nelle relazioni tra le due sponde dello stretto [di Taiwan]”. Rimasta inascoltata (la Cina non apprezza la sua posizione pro-indipendenza dell’isola), Tsai ha ottenuto buoni risultati in patria. Contribuendo in maniera decisiva a trasformare quella che un tempo era l’isola più militarizzata del mondo in un baluardo di liberalismo. Un solo esempio: quest’anno la Corte costituzionale di Taiwan si è pronunciata in favore dei matrimoni tra persone dello stesso sesso; non era mai accaduto, in un paese asiatico.

Jacinda Ardern

In Italia non sono in molti a conoscerla, ma tra i progressisti di lingua inglese è una vera celebrità. È Jacinda Ardern, primo ministro di una delle nazioni più femministe dell’emisfero australe: la Nuova Zelanda, che al suo attivo vanta già due primi ministri donna (la conservatrice Jenny Shipley e la laburista Helen Clark). Primo ministro a soli 37 anni, in campagna elettorale Ardern ha tuonato contro i fallimenti del capitalismo, ha invocato la repubblica (la Nuova Zelanda ha come capo di stato la regina Elisabetta II) e ha promesso di battersi con tutte le sue forze contro il cambiamento climatico. Una bella dose di radicalismo, specie in un paese di lingua inglese. Pochi giorni fa, dalle colonne del Financial Times, ha anche auspicato più donne ai tavoli dove si prendono le decisioni. “Essere solo ascoltate non è sufficiente”, sostiene. Ora per Ardern viene il difficile: trasformare le promesse e le dichiarazioni incendiarie in fatti. Qualcosa si sta già muovendo: a fine ottobre, ancora prima di giurare da primo ministro, ha annunciato nuove misure per contrastare la povertà infantile, che in Nuova Zelanda è sopra i livelli di guardia.

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