Salute mentale
Gioventù violenta, smettiamola di pensare ai muscoli e riparliamo di cultura
«Giovani e violenza» è una tematica che polarizza, sulla quale i media riferiscono con dovizia di particolari e sulla quale l’opinione pubblica e la politica continuano a dibattere vivacemente. La cronaca di questi giorni ci ha sbattuto in faccia il feroce pestaggio e l’omicidio di Willy Monteiro Duarte, intervenuto per fare da paciere in una rissa, fuori da un locale a Colleferro, in provincia di Roma. I suoi aggressori, Gabriele e Marco Bianchi, Mario Pincarelli e Francesco Belleggia (con ruoli ancora da definire fino in fondo), sono tutti giovani adulti, meno che trentenni. L’accusa oggi è di omicidio volontario.
Pochi giorni più tardi a Caivano (nord di Napoli), Michele, 30 anni ha speronato la moto della sorella Maria Paola Gaglione. L’avrebbe inseguita per punirla perché non sopportava che lei avesse una relazione stabile con Ciro, il ragazzo trans che era con lei sullo scooter.
E poi a Marconia, frazione di Pisticci, in provincia di Matera, otto giovani hanno pestato e stuprato due minorenni inglesi, durante una festa in una villa privata. Gli accusati hanno fra i 19 e i 23 anni.
Si tratta di episodi che inducono un clima di insicurezza, nonostante viviamo in una società molto più sicura, rispetto al passato. Ma «ogni storia è diversa» e a confermarcelo è Isabella Merzagora, professore ordinario di Criminologia presso l’Università degli Studi di Milano e presidente della Società Italiana di Criminologia. «Ho visto decine e decine di omicidi e di persone che li hanno commessi. Ho visto storie tutte diverse. I disperati, gli impauriti, i cattivi, i sadici, i buoni. Per capire bisogna conoscere a fondo le storie, tutti gli elementi e stare attenti a esprimere troppi giudizi».
Gli omicidi, peraltro, per fortuna, nel nostro paese, sono diminuiti e continuano a diminuire. Ma «parlando in generale, è vero che la fascia dei giovani adulti è quella più coinvolta nelle violenze, non necessariamente negli omicidi. Vedo episodi di odio in rete, di disprezzo e violenza di razza, di genere, contro tutti quelli che sono considerati altri, ne vedo, ne sento e mi preoccupano», afferma la Merzagora.
Si è dibattuto molto sullo stile di vita dei fratelli Bianchi, indagati per l’omicidio volontario di Willy. Sull’ostentazione del lusso e dei muscoli guadagnati con la pratica delle MMA (arti marziali miste) non solo nella vita reale ma anche sui social network. «Vorrei spezzare una lancia a favore delle arti marziali. Le regole insegnate sono quelle di migliorare il carattere, non pensare all’altro come un avversario ma come qualcuno che esercita uno sport con te, acquistare l’autocontrollo, e soprattutto avere rispetto dell’altro».
Spesso, inoltre, si cerca di patologizzare certi fenomeni, perché abbiamo bisogno di trovare una ragione, una spiegazione, ma la malattia mentale con la violenza ha poco che a spartire, anche se, ovviamente, è necessario fare ogni verifica in sede giudiziaria. Da un punto di vista statistico, comunque, i malati mentali non commettono più reati violenti dei sani. «Gli assassini di Willy, ad esempio, potrebbero essere cattivi. Gli inglesi usano un gioco di parole “mad or bad”, “matti o cattivi”. C’è il non sapersi controllare, non per forza patologico. C’è il non rispetto e la non considerazione per l’altro. La cattiveria può essere una questione di non patologia in senso clinico», spiega la professoressa.
E l’aspetto del rispetto dell’altro è quello che ci interessa di più guardando a tutte le manifestazioni di violenza che finiscono sulle pagine dei giornali. L’omicidio di Willy non è solo un omicidio “dei muscoli”, il problema è culturale. L’altro viene disprezzato, è considerato meno o niente.
«Qui è una questione di addestramento alla cultura del non altrismo. Usiamo l’altruismo invece dell’altrismo. Dove per altrismo intendo la distinzione tra noi, titolari di diritti, più forti, più buoni, e tutti gli altri. Bisogna che queste cose circolino e passino tra i giovani». E poi si ci sono gli odiatori seriali sono quelli che ci raccontano di più, ma anche molti giovani pronti al sacrificio che invece non fanno notizia. «Hannah Arendt ha titolato il suo libro “la banalità del male”. Forse è il bene ad essere banale, non il male e sarebbe una bella cosa perché vorrebbe dire che siamo più buoni che cattivi», conclude la criminologa.
Che il problema sia culturale lo pensa anche Alberto Rossetti, psicoterapeuta, psicoanalista e scrittore che si occupa della terapia e cura del disagio psichico e dei problemi degli adolescenti, oltre che degli adulti, a Torino.
«Forse certe persone, certi atteggiamenti non li disinnescheremo mai. Per cambiare la cultura però dobbiamo smetterla di impoverire i territori, le province, che sono molto povere di iniziative pubbliche, culturali, che tengano insieme le persone», afferma Rossetti. «Crescere solo a televisione, social network e con l’idea che per avere successo devi avere tanti muscoli e soldi non aiuta i ragazzi. Questa mentalità, depotenziando anche il maschilismo e la prevaricazione, la combatti solo generando cultura, occasioni di incontro e scambio».
Ma come dovrebbero comportarsi i ragazzi di fronte alle manifestazioni di violenza, alla prevaricazione? Intervenire o lasciar correre, scappare?
«L’eccesso di testosterone porta troppo spesso a situazioni pericolose. Non fare nulla, stare zitti e non rispondere alle provocazioni, in alcune persone viene vista come una cosa negativa. Viviamo in una cultura in cui si mette al centro la mascolinità intesa come “passare sopra all’altro”».
Ma abbassare i toni, non provocare, uscire dalla rissa, mandare giù il boccone, senza arrivare allo scontro è quasi sempre la cosa migliore. «Quando si ha a che fare con il bullismo – ci spiega Rossetti – (anche se questi episodi non possiamo definirli di bullismo, perché non ci troviamo di fronte a dei minori e il bullismo ha luogo in un tessuto diverso, con la componente della continuità) la prima cosa che viene detta ai ragazzi è di non rispondere ai bulli e poi denunciare il fatto». È anche vero però che ci sono situazioni in cui c’è poco da fare, se dall’altra parte c’è una persona intenzionata ad usare la violenza a tutti i costi.
Educare all’indifferenza, inoltre, non è la cosa giusta. «Non è mai corretto in linea di massima dire ai giovani di non mettersi in mezzo, perché tante volte intervenire aiuta e può disinnescare le cose. I ragazzi devono sapersi aiutare, tenere gli occhi aperti, e al tempo stesso provare a leggere le situazioni, non buttandosi a capofitto».
La strada verso il cambiamento sembra quindi essere quella di educare alla diversità, all’incontro, a non vivere l’altro sempre come qualcuno da eliminare dalla propria strada. Inoltre, secondo Rossetti, il genitore oggi deve contrastare la cultura del successo e del consenso a tutti i costi. «Dovremmo tornare ad un’educazione e cultura meno laica (non nel senso che deve essere religiosa) ma che torni ad avere dei valori. E anche la politica ha una responsabilità, non dovrebbe fomentare certi messaggi di odio».
Il ruolo delle istituzioni è fondamentale nel coltivare questo processo culturale. «Abbiamo bisogno di progetti che tentino di colmare quel gap culturale che stiamo vedendo. Viviamo in una società sostanzialmente sicura. Quello che ci impressiona è che questi episodi sono legati ad una rabbia sociale, di cui forse non sono consapevoli neanche i protagonisti. È una rabbia dovuta all’incapacità di essere se stessi, di stare in un mondo in cui ti sembra di non avere coordinate e di avere solo l’autonomia del corpo. E lo vedi in termini comunicativi: il corpo scolpito, i tatuaggi, i piercing», ci spiega Claudio Cippitelli, sociologo e socio fondatore delle cooperativa sociale Parsec di Roma.
A differenza che negli anni ‘70, ‘80 dove la rabbia era collettiva e aveva l’obiettivo di cambiare la società degli adulti, oggi ci troviamo di fronte a giovani che hanno un rapporto tranquillissimo con gli adulti, che vivono in famiglia, non vanno via di casa, ma che poi costruiscono la propria identità su un nemico. Si costruiscono atteggiamenti razzisti (ma non solo sul colore della pelle) e l’altro è da combattere, picchiare, vezzeggiare.
Secondo Cippitelli, abbiamo la necessità di combattere una battaglia culturale che metta al centro la tolleranza, la conoscenza dell’altro. E in un mondo che mette al centro le emozioni, dare una forma di razionalizzazione della propria rabbia. E gli operatori di strada, insieme a tutta la rete locale, i comuni, le scuole, le biblioteche, le palestre hanno un ruolo fondamentale.
«I progetti di territorio non insegnano, non si danno le pillole di prevenzione, l’unità di strada può offrire strumenti per favorire la riflessività dei ragazzi, aiutandoli a fare domande, senza dare risposte. Dobbiamo cercare di spingere i giovani a motivare i loro pensieri, le loro azioni, abituarli a pensare. Non indurli a schierarsi. Dobbiamo chiedergli conto».
Di fronte a casi di cronaca eclatanti, la politica, anche ai massimi livelli, chiede “pene esemplari”. Questa volta lo ha fatto il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, in occasione dei funerali di Willy.
«Pene esemplari non si devono chiedere mai», commenta Isabella Merzagora. «Si ripassi Kant. L’uomo non è un mezzo ma un fine, i giudici faranno il loro lavoro, non hanno bisogno del suggeritore, quindi che si chieda giustizia questo sì, è importante, ma non altro».
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Foto di copertina tratta dalla pagine Facebook del sindaco di Colleferro Pierluigi Sanna
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