Quirinale

La Repubblica Italiana, settantenne e senza tradizione

3 Gennaio 2016

Nel  discorso di fine anno il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella non ha mancato di toccare con poche parole tutti i problemi sociali, politici economici e culturali che caratterizzano il nostro paese. Nell’ordine: lavoro/occupazione (giovani, donne esodati); innovazione/situazione economica; evasione fiscale; ambiente/inquinamento; patrimonio immateriale (paesaggio, per esempio); efficienza dei servizi pubblici efficienti; terrorismo/immigrazione/ integrazione/partecipazione degli immigrati al benessere del Paese. Tutti temi su cui vale la pena riflettere e certamente al centro dell’agenda politica. Poi senza riferirsi a un dato concreto Mattarella ha inserito il tema della Costituzione, sottolineando che «rispettare le regole [voglia] dire attuare la Costituzione, che non è soltanto un insieme di norme ma una realtà viva di principi e valori».

E ha aggiunto: «Tengo a ribadirlo all’inizio del 2016, durante il quale celebreremo i settant’anni della Repubblica». È  un tema interessante, questo della Repubblica. Ed è anche interessante come ormai esso ci accompagni da tempo, almeno dalla presidenza Ciampi.

L’occasione del settantesimo potrebbe apparire solo una circostanza di calendario. In fondo se si considera la durata dovrebbe ornai considerarsi un sistema solido. Non ne sono convinto, anche perché la fondatezza dei regimi politici, rispetto ai valori, non ha la sua ragione nella durata (anche se certamente la durata testimonia di qualcosa)  ma ha la spiegazione nei fondamenti filosofico-politici che la pongono in essere. Qui sta il punto debole della Repubblica italiana. Infatti repubblica non è solo tecnicamente l’abolizione del principio di successione famigliare. È qualcosa di molto di più e soprattutto di diverso.

Quando il Presidente Sergio Mattarella afferma che la Costituzione non è solo norme e regole, sottintende che ciò che è da mettere al centro della riflessione pubblica è il concetto di “Libertà repubblicana”. Un termine  che allude a una specifica pratica della libertà, distinta da quella liberale.

La libertà per i repubblicani è non essere sottoposti alla volontà arbitraria di qualcun altro. Ovvero: l’ideale repubblicano è predisporre un sistema di tutela in grado di eliminare, ora e domani, la possibilità di subire arbitrio. Per i liberali, viceversa, la libertà è garantirsi possibilità di azione senza una legge limitante.

Come si evita l’arbitrio secondo l’ideale della libertà repubblicana? La legge e il dettato costituzionale – ovvero il patto sancito tra soggetti liberi – sono i due terreni per il mantenimento della libertà.

A differenza dei sostenitori dello slogan “meno Stato”, la legge per l’ideale repubblicano non costituisce un’interferenza che limita la libertà. Alla lunga il problema è rimettere al centro della politica il dettato costituzionale. Perché Mattarella vi ha insistito, anche se apparentemente di passaggio? Perché, credo, che questa presidenza dunque ritenga che lo sforzo profuso negli ultimi venti anni dagli inquilini precedenti del Quirinale non sia stato sufficiente per fondare una cultura repubblicana.

Ovvero ritenga come  in tutto questo tempo, ancora non si sia prodotto né fondamento storico alla cultura repubblicana nella storia italiana né si sia dato un significato, non solo celebrativo, alla festa del 2 giugno. In breve che non si sia prodotta una memoria collettiva della Repubblica italiana.
Per molto tempo il problema del 2 giugno non è stato che cosa si celebrava, ma come lo si celebrava. Lentamente e negli anni si è consolidato un rito che si riconosce nella parata militare. Fino a che punto questi segni marcano un contenuto specifico?

Il referendum del 2 giugno 1946 non è entrato nell’identità collettiva. Fu un passaggio formale senza dimensione culturale.
Per rendere concreto e, soprattutto ricco di contenuti quel passaggio, si tratta di sottrarre il 2 giugno a una dimensione “vuota”. A questo fine occorreva caricare quella data di una storia lunga che ne segni un itinerario per tappe di eventi, ma anche ne definisca con lentezza i contenuti che ancora stentano a emergere. E che comunque non emergeranno da soli, in forza del peso dell’età.

Gran parte della comunicazione pubblica della Presidenza della Repubblica a partire dagli anni ’90 ha proprio questo significato: ricollocare l’idea di repubblica dentro un ciclo. E dunque insistere sul Risorgimento e poi sulla Resistenza non come eventi in sé, ma come segnalatori che nel tempo danno legittimità e contenuto ideale alla Repubblica. E lo stesso vale in questi ultimi dieci anni  nella sottolineatura del tema dell’Europa o dell’impegno nella lotta al terrorismo.

Il problema ogni volta è la costruzione di un “noi” rispetto a una tradizione, e la prospettiva di un “noi” in relazione a un progetto. Detto diversamente: il problema è quello della Repubblica come memoria, laddove col termine memoria non intendo il passato. La memoria, infatti, parla al presente, pensa al futuro, scrive di passato.

Si può discutere del lessico adottato a partire dagli anni ’90. Tuttavia, quell’insistenza muove da una convinzione precisa e da un problema concreto. Un rituale celebrativo “freddo” non è destinato a durare ed  è votato all’oblio se fondato su un progetto privo di un contenuto. Soprattutto corre il rischio, se pensato , discusso, e riformato solo sulla base di dettagli tecnici, di apparire “figlio di nessuno”. Un’eredità che si può anche “lasciar morire”. Se la Repubblica ci è cara, vale la pena pensarci.

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