Lavoro
Sì, ma che lavoro fai?
Per uno che “trova lavoro”, ovvero Stefano Massini che si dice esser stato nominato alla direzione del Piccolo Teatro di Milano (ma ci torneremo), altri – tanti altri – il lavoro a teatro se lo sognano.
Oggi è il primo maggio e, come ogni anno, una riflessione in questo senso pare davvero opportuna. Nel settore spettacolo dal vivo, lavorare diventa sempre più un miraggio.
È ormai tramontata l’epoca dell’attore “neo diplomato d’Accademia” che aspetta la telefonata del regista e viene scritturato per la lunga tournée.
Oggi andare in scena non solo non paga, ma addirittura costa.
Non ci stancheremo di ripeterlo: è un dato di fatto che sotto la formula dell’affitto sala, del bando, o del provino mascherato, si celano piccole e grandi “truffe” ai danni dei diretti interessati (certo non dolose, ma sicuramente dolorose).
Spiego per chi non è di questo evanescente mondo: una giovane compagnia teatrale, magari al suo primo lavoro, dopo mesi di prova fatti in garage, stanze di casa o spazi sociali, decide di debuttare. Manda materiali informativi – video, testi, e quant’altro – ai vari responsabili di spazi teatrali accreditati. Nel mondo ideale, il direttore artistico sceglie la compagnia, la programma in cartellone, addirittura paga il cachet o trova formule di retribuzione a incasso. Normalmente, invece, la giovane compagnia non riceve risposta, oppure è chiamata a patto però di contribuire alle spese, affittare la sala, pagare i tecnici, rinunciare all’incasso.
«Ma è un investimento! Ci facciamo conoscere!» dirà il giovane regista spacciando entusiasmo: e si vende la macchina, si ipoteca la casa, chiede prestiti a genitori, parenti e amici. Affitta quel teatro per tre giorni: spera nel pubblico, nella presenza dei critici. Però magari il teatro non ha fatto promozione sufficiente (costa troppo), e i critici sono spesso altrove. Così l’investimento non ripaga, e la compagnia “lavora” a sue spese.
La cosa, a dire il vero curiosa, è che spesso sono teatri finanziati dallo Stato o dagli enti pubblici locali a chieder soldi per l’affitto o per le spese.
Poi ci sono i bandi: nella versione, però, tutta italiana delle pratiche europee e democratiche. Allora nessuno sceglie più, almeno ufficialmente, perché ci sono i bandi. Ma ve lo immaginate Carmelo Bene che risponde a un bando?
Fattostà che, per andare in scena, o per ricevere finanziamenti, devi partecipare al “bando”. Il bando richiede una “iscrizione a pagamento” (e si torna al caso precedente), oppure è “pubblico”. Ora, nel paese che è primo per corruzione nella Ue (dati Corruption Perception Index 2014 di Transparency International, ripotartai dal “Fatto Quotidiano” del 3 dicembre 2014) diciamo che la formula del “bando” è spesso la foglia di fico quantomeno per nascondere decisioni già abbondantemente prese altrove. Va da sé, la cultura della “relazione” – l’appartenenza al partito, alle logge, alle parrocchie, alle correnti, alle consorterie – vince ancora e sempre sulla cultura della “norma” ovvero della regola, con buona pace del merito e dei concorsi “trasparenti”.
Infine, i provini, o presunti tali: quelli “veri”, quelli di una volta, non si fanno più o quasi. Oggi il provino si è trasformato in workshop (a pagamento) durante il quale il regista fa due o tre giorni di lavoro con un gruppo di attori (spesso generosi nel dare non solo il contributo finanziario, ma anche idee e prospettive) salvo poi sceglierne qualcuno o nessuno. Portandosi però a casa il gruzzoletto racimolato ai danni degli aspiranti attori, che si trasformano inconsapevolmente in “co-produttori” del lavoro del regista o del teatro di turno.
Va detto che quella del “laboratorio” è la nuova frontiera. Lo sosteniamo da tempo: l’Italia teatrale si è trasformata in un laboratorio permanente, dove tutti insegnano e tutti, continuamente, si formano. Il workshop, quando è autentico, è un vero strumento di aggiornamento professionale, ma spesso si trasforma in una alternativa per tenersi occupati, in un parcheggio sociale per un mare di attori e attrici che non trovano sbocco nel mercato, perché il “mercato” non c’è più.
In questa prospettiva sembra non incidere nemmeno la “riforma” di settore voluta dal Mibact del ministro Franceschini e del direttore generale Salvo Nastasi. Una riforma che si rivela, invece destinata a ridimensionare notevolmente le possibilità lavorative in Italia.
Scrive Mimma Gallina nel suo Ri-organizzare il teatro (FrancoAngeli editore, 2014): «le istitutuzioni principali (e i principali produttori) sono state in questi anni e restano i Teatri Stabili pubblici (incalzati da qualche privato che si è recentemente rafforzato), ma il termine “pubblico” è sparito dal vocabolario che il Mibact propone dal 2015 in avanti: e se i termini contano, questa scelta non sarà priva di conseguenze».
Ecco, lo scenario attuale prevede dunque un ulteriore passo indietro del “pubblico”. Ancora Mimma Gallina: «nel quadro del disimpegno progressivo della pubblica amministrazione nei confronti della cultura, l’evoluzione del FUS (Fondo Unico dello spettacolo) è ancora più drammatica. Nel 1985, anno di istituzione del Fondo, il volume di risorse stanziate a prezzi correnti era pari a 357,48 milioni di euro (…) lo stanziamento del 2012 è pari a -53% rispetto a quello del 1985 e il rapporto tra FUS e prodotto interno lordo (PIL) è passato dallo 0,0832% del 1985 a 0,0263% del 2012, registrando una variazione del -68,4% circa». Meno soldi, per una riforma che riduce drasticamente le possibilità di tournée, di co-produzioni, e di occupazione. Basti dire che la caldeggiata creazione delle “compagnie stabili” all’interno dei Teatri Nazionali si sta mutando in una verticale riduzione dei posti di lavoro: quanti attori lavoreranno nei sette Nazionali per il prossimo triennio? Se pure fossero duecento (verosimilmente però non credo che ciascun nazionale riuscirà ad assumere più di 10 attori), gli altri che fanno? Dove vanno?
Di che stiamo parlando, allora?
Se lo Stato non sostiene il comparto, a poco e nulla serviranno le strombazzate riforme, se non a decimare ulteriormente fermenti e creatività.
A fronte di questo quadro pessimista (temo realista) della situazione generale, quella “particolare” è anche peggio. Intermittenza e breve durata dei rapporti di lavoro; la presunta “autonomia” che ha trasformato tutti in meste “partite Iva” con quel che ne consegue; il regime dei minimi quasi mai rispettato; l’assorbimento dell’Enpals da parte dell’Inps; la pressoché generale scomparsa della “paga prove”, stanno mortificando sempre più i lavoratori dello spettacolo. E poco importa se ci sono figli da mantenere, bollette da pagare, mutui da estinguere.
La ventata di entusiasmo per i cosiddetti “beni comuni” che avrebbe rimesso in discussione istituzioni culturali come i teatri e ruolo di chi in quelle istituzioni lavora, sembra essersi spenta, soffocata dai tanti cavilli della politica.
La Costituzione italiana garantisce al lavoratore un’esistenza libera e dignitosa. Per ora attori e attrici italiani rischiano di avere solo molto tempo libero, da passare con dignità. E quando diranno «sono attore», come al solito sentiranno rispondere: «sì, ma che lavoro fai?». Buon primo maggio.
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