Storia
Do You remember November 9th? L’Europa che non c’è e i suoi abitanti
La liturgia pubblica nelle prossime due settimane chiede entusiasmo per la celebrazione, il prossimo 9 novembre, dei trenta anni del crollo del Muro di Berlino. Al massimo possiamo festeggiare la liberazione (fine dell’oppressione precedente), se qualcuno ha intenzione di festeggiare la libertà (ovvero un nuovo sistema fondato su eguaglianza, emancipazione dal sopruso, nuovo patto per lo sviluppo) – per riprendere una distinzione saliente proposta da Hannah Arendt – in breve ciò che in gergo settecentesco si sarebbe chiamata “felicità”, meglio soprassedere.
In realtà tutti sappiamo che non festeggeremo perché la sensazione è che il progetto di libertà non ha avuto un esito felice. Trenta anni dopo sarebbe un errore non prendere atto che qualcosa non ha funzionato e che in Europa tra progetto, o meglio il sogno, e quotidianità qualcosa è andato storto.
È andato storto nel progetto europeista che pure aveva (o sembrava avere) gambe per camminare ed è andato storto nella realtà dell’ex sub-impero sovietico. A certificarlo basterebbe osservare questo. Al momento del compimento di qualsiasi sconvolgimento e processo rivoluzionario sono gli sconfitti a prendere la via dell’esilio o a entrare nella dimensione del privato e del silenzio.
Così è accaduto nel 1789 quando l’aristocrazia inizia a prendere la strada della fuga. Così è stato nel 1815 quando gli ultimi giacobini e bonapartisti si ritirano a vita privata perché avvertono che il vento della storia è finito. Così è accaduto dopo il 1917 in Russia quando aristocratici e russi bianchi vanno a cercare altrove un’ipotesi di continuità, comunque di futuro.
Dopo il 1989, invece, ad andar via sono stati i più convinti sostenitori dei valori europeisti, liberali, democratici delle rivoluzioni di velluto o comunque dei riformatori. Insomma, da quell’anno, per loro è stato chiaro che era più facile cambiare paese che cambiare il proprio paese.
Per capire dove stia la crisi possiamo soffermarci sui modi in cui gli abitanti d’Europa abbiano attraversato gli anni successivi al 1989; che cosa sia cambiato da allora, che cosa non abbia funzionato nella dinamica aperta allora,
Due i punti: che cosa non abbiamo capito; le scelte che abbiamo fatto pensando che la strada intrapresa consentisse di costruire l’Europa che non c’era e che ancora oggi non c’è.
Si potrebbe dire che il primo errore è stato pensare di imporre un principio nel processo costruttivo dell’Europa successivo al crollo del Muro: da una parte c’era l’Europa tradizionale (quella del MEC allargato) che si muoveva sul principio che la costruzione dell’Europa sarebbe stata conseguente al principio che ciascun componente della UE doveva fare qualcosa per l’Europa, mentre dall’altra parte i nuovi venuti fondavano le loro aspettative su ciò che l’Europa doveva fare per loro.
In breve, gran parte della crisi di realizzo dell’Europa, o più poeticamente della crisi del progetto europeista sta nell’aver proposto una ipotesi liberale a un partner che non chiedeva liberalismo.
Ma non è solo questo. Se oggi la crisi dell’Europa nasce da questo misunderstanding, essa si alimenta e si acuisce a partire dal fatto che la dinamica che si è aperta ci consegna un percorso esattamente rovesciato rispetto a questa premessa.
A lungo «costruire e fare l’Europa» voleva dire aiutare coloro che avevano vissuto in contesti di totalitarismo ad uscire e d abbandonare ciò che ancora rimaneva di una dimensione totalitaria, antidemocratica, monopartitica.
A lungo a Est, molti hanno pensato che la salvezza fosse l’Europa e l’Europa fosse quel percorso di liberazione e libertà. A oggi il processo si è invertito e la convinzione è che l’Europa ci sarà se si voterà al credo sovranista, ovvero a un credo che fa di tutte le componenti dell’illiberalismo l’ancora di salvezza. La fotografia di questo tempo sta in una frase di Orban, quando ha detto che nel 1989 “pensavamo che L’Europa fosse il nostro futuro; oggi siamo noi il futuro dell’Europa”.
Non è una fotografia chiara della profondità della crisi di progetto, rispetto al profilo progettuale originario?
Consideriamo ora un secondo blocco di questioni che possiamo radunare intorno al tema dello scenario di futuro dell’azione politica.
Con che visione della politica si intraprende il progetto dell’Europa nel tempo del crollo del Muro di Berlino?
Uno dei punti della politica dei movimenti verdi alla metà degli anni ’80, ma soprattutto in Germania fu la questione degli euromissili.
Dove sta la partita?
Il tema, negli anni ’80, è che l’Europa può tornare ad essere protagonista se e solo se non riduce il suo territorio ad uno scontro per conto terzi (e dunque di nuovo il confronto tra Russia e Stati Uniti), ma se sa pensare una politica in cui la logica delle proprie alleanze rende non operabile quello scontro.
Nell’Europa degli anni ’80 era la politica di inclusione della Turchia, oggi vuol dire riuscire a pensare una politica del e nel Mediterraneo che sappia coniugare sviluppo, crescita, e nuove forme della cooperazione Nord/sud.
Allora nel corso degli anni ’80 il tema per l’Europa era avere una politica estera dove la diplomazia non è tanto il risultato di un sistema di accordi bilaterali, ma è conseguenza di un‘idea di crescita e di sviluppo che si persegue. Significa essere proattivi ed esserlo assieme è assolutamente necessario. Significa anche costruire una visione della crescita che prende consapevolezza che non sono le macroteorie proprie del ‘900 a fornire una risposta ma sono le scelte che nascono da un’idea di responsabilità sul futuro che dobbiamo assumere.
Quelle scelte nella storia sociale e culturale dell’Europa nel corso degli anni ’80 sono state proprie all’inizio di minoranze che fuoriuscivano dalle pratiche politiche dell’innovazione e dell’impegno universalistico degli anni ’60, ma che avevano avuto la forza nel decennio successivo di rovesciare i dualismi di schieramento e comprendere dove andasse riavviato un profilo di riflessione, su quali parole chiave definirlo, con quale «visione mondo» agire.
La crescita dei movimenti per la pace, delle politiche legate al mondo verde, l’attenzione al tema della persone che caratterizza i movimenti di protesta nella BDR tra 1982 e 1989 e in parte in alcuni movimenti urbani (che riscoprono la dimensione utopica della solitudine nella riflessione di Ernst Blocho in quella di Gunther Anders) ma anche fuori della Germania nei movimenti con Charta 77 e in parte nella riflessione che avvia la componente laica dei Solidarnosc (Geremeck e Michnik) nonché la riflessione dell’ultimo Sacharov negli anni della Perestrojka hanno come presupposto di partenza il fatto che occorre mettere in movimento le persone, che le persone si attivano se si riaprono le grandi domande di senso sullo sviluppo, sulla capacità di ripensare una economia umana che implica anche un riflessione specifica che tenga conto delle domande trascendenti proprie del religioso.
Da questo punto di vista gli anni ’80 intesi come “anni leggeri” come anni antiideologici, cui spesso vengono richiamati e identificati, sono soprattutto l’effetto di una lettura che vede la crisi delle ideologie del ‘900 come fine del futuro.
Ma a ben vedere quella lettura propone una visione “corta” del progetto europeista che confonde crisi delle grandi narrazioni ideologiche del’900 con programma minimo.
Gran parte della riflessione politica che pensa in anticipo ciò che poi 30 anni dopo si disegna come riflessione sulla sostenibilità, parte invece proprio da una riformulazione di ciò che nel lessico delle socialdemocrazie si presentava come «programma minimo» ma caricandolo di una visione politica che non si limita alla riforma dell’economico, che pone al centro del suo progetto una riforma dei comportamenti e delle categorie mentali. In breve, ciò che in altri tempi si sarebbe chiamata una domanda e una richiesta di «riforma intellettuale e morale».
L’idea dell’impegno che cresce negli anni ’80 è anche l’idea che si può pensare futuro se si rompe lo schema delle appartenenze ideologiche del ‘900 e si prova a ripensare una nuova alchimia di linguaggi, Che nascono da esperienze emozionali non solo diverse, ma talora anche lontane tra loro.
Nata sul tema del pericolo di una nuova guerra, e dunque ancora dentro la crisi della “guerra fredda” l’esperienza dei dialoghi di Assisi a tra 1986 e 1988 (la prima iniziativa è il 27 ottobre 1986) era anche un modo per provare a ridare personalità di spessore non solo a un l ruolo delle religioni nella crisi, ma anche ai movimenti religiosi non solo di curia o di gerarchia alla domanda di futuro che i diversi vissuti religiosi provano a testimoniare, anche sulla scorta di quel pensiero pacifista (in Italia è Aldo Capitini, don Primo Mazzolari, oltreché Lorenzo Milani) che prova a dare nuova identità a una dimensione religiosa di futuro.
Questo era anche la spinta di fenomeni di crescita della consapevolezza europea che voleva dire: prendere in mano le sorti del futuro; avere anche un’idea di sviluppo in cui ripensare complessivamente il vocabolario, le parole, con cui abbiamo pensato benessere, crescita e, sviluppo almeno nel ‘900; tornare a interrogare con le domande di oggi, e con la sollecitazione a pensare futuri i luoghi i temi che dimostrano la debolezza delle risposte solo sovraniste o solo rivolte a ingaggiare un rapporto privilegiato con uno degli attori che configurano il conflitto globale, ma provare a pensare e a mettere in pratica una politica che ridiscuta i termini dell’equilibrio fondato sulla forza che si è costruito in conseguenza anche della grande crisi del 2008 da cui l’Europa in concreto non è mai uscita.
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