Deja vu all’italiana: da Pinelli a Charlie Hebdo
Dai tempi di Piazza Fontana, quando in Italia succede una tragedia la priorita’ e’ una sola: trovare il capro espiatorio per evitare di cercare i […]
Tellurici i fatti di Parigi. Idonei a scatenare una reazione istintuale dell’analisi che spesso produce un sequestro di senso. Parigi, un giornale satirico dalla cifra anarchico libertaria. Vignette dissacranti, sempre atee. L’obiettivo di un attacco terrorista, che è stato in grado di imprimere al dibattito l’ambiguo alfabeto del noto “scontro di civiltà”, categoria di interpretazione partorita dall’intelligence statunitense. Inni alla laicità che ripropongono il problema etnocentrico delle narrazioni occidentali, focalizzate sulla costruzione storica di una propria identità in opposizione ad un Oriente sempre rappresentato come barbaro e retrogrado. Un attacco gravissimo alla libertà di espressione, si legge più o meno ovunque. Da tre giorni siamo tutti Charlie. Ma dietro questa monolitica rappresentazione le contraddizioni sono tante. A partire dalla rimozione di un dato: gli attentatori vengono dalle periferie parigine. Da quelle banlieues in cui l’esclusione sociale è cocente realtà quotidiana. Miguel Mellino, docente di antropologia culturale e di studi postcoloniali, della rete di ricercaotri DecoKnow che si occupa di pratiche di “decolonizzazione dei saperi”, lo dice senza ambiguità: «No, non mi sento Charlie».
Perché è “pericoloso” dire all’indomani dei fatti di Parigi “Je suis Charlie”?
Dire “Je suis Charlie” è alimentare una lettura poco complessa degli eventi di cui siamo stati spettatori. Moltissime delle analisi che sono circolate in questi giorni hanno veicolato una narrazione semplice: attacco alla laicità, attacco alla libertà di espressione, attacco all’Occidente. Si è soprasseduto con disinvoltura a un dato fattuale:gli attentatori sono cresciuti nelle periferie di Parigi. Nonostante questo non è stata messa in discussione la nostra visione del razzismo con i correlati problemi di esclusione sociale. Se la sinistra non si chiede più, di fronte a un fatto del genere, perché non riesce a parlare ai settori più esclusi della popolazione rischia solo di restare intrappolati tra due mostri: le politiche sempre più ultraliberiste dell’Europa e la chiusura identitaria. Dire “Je suis Charlie” è non cogliere bene questa crepa che ci si è parata davanti.
In che modo parlare di attacco alla libertà di espressione può diventare fuorviante rispetto all’obiettivo della comprensione degli accadimenti?
Perchè è necessario chiedersi di quale libertà di espressione stiamo parlando se la notizia dei morti al centro di Parigi rimbomba ovunque da giorni mentre i giornali dedicano spazi esigui, per non dire nulli, a proposito di quel campo di concentramento a cielo aperto che è la striscia di Gaza. Mi pare, ancora che la libertà di espressione latiti, ad esempio, senza grandi scandali, a proposito dei respingimenti in mare, che non sono altro che prodotto diretto delle politiche criminali dell’Unione europea. Siamo, io credo, in presenza allora di una pericolosa autocensura che agisce come ferocissimo meccanismo di normalizzazione. Si dovrebbe ragionare invece su come agisce la sindrome dell’enclave su una minoranza che si sente accerchiata dal dispositivo securitario sul quale si fonda il neoliberismo.
Cosa è che non viene pronunciato in questi giorni? Quale è il contenuto rimosso?
Che il mondo da 20 anni vive su un fronte di guerra che va dal Corno d’Africa all’Afghanistan. Ed è una guerra in cui l’Occidente non può in alcun modo essere rappresentato solo come vittima.
Si dice attacco ai diritti fondamentali, ma si dimentica di dire che questi diritti sono stati il prodotto di lotte sociali. E, soprattutto, si dimentica di prendere in considerazione il fatto che invece di diritti essi sono spesso privilegi che non riguardando un’ampia parte della popolazione, esclusa soprattutto a causa di una iniqua distribuzione delle ricchezze. Non approfondire questi aspetti significa dimenticare la lezione di Benjamin, “dove c’è civiltà c’è barbarie”.
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Grazie dell’intervento. Ci sono posizioni condivisibili, e spero che si rinsavisca. Mi resta un solo dubbio, avendo parlato con alcuni palestinesi. Quando parli di campo di concentramento a cielo aperto riferendoti a Gaza, stai pensando anche al ruolo di Hamas, che non è certo un campione di umanità e ha messo in piedi una dittatura ai danni della propria popolazione o ti riferisci, come si fa di solito a sinistra, solo a Israele?
Beh, se si può sostenere che l’esclusione sociale in Francia è, di fatto, prodotto del neoliberismo (in Francia!), probabilmente è possibile sostenere qualsiasi cosa. Che poi il supposto neoliberismo (termine che non uso, perché è ormai un catch-all privo di significato), se uno cerca di interpretare cosa con esso si intenda, abbia un’inclinazione securitaria (whatever that means) e respinga l’immigrazione, è semplicemente falso. Quelli semmai sono Salvini e Le Pen, che sono liberisti come io sono cinese. Più seriamente, in termini di analisi su ciò “che fa un terrorista”, http://www.lavoce.info/archives/24457/come-nasce-un-terrorista/
Education, Poverty, Political Violence and Terrorism: Is there a Causal Connection? The paper investigates whether there is a causal link between poverty or low education and participation in politically motivated violence and terrorist activities. After presenting a discussion of theoretical issues, we review evidence on the determinants of hate crimes. This literature finds that the occurrence of hate crimes is largely independent of economic conditions. Next we analyze data on support for attacks against Israeli targets from public opinion polls conducted in the West Bank and Gaza Strip. These polls indicate that support for violent attacks does not decrease among those with higher education and higher living standards. The core contribution of the paper is a statistical analysis of the determinants of participation in Hezbollah militant activities in Lebanon. The evidence we have assembled suggests that having a living standard above the poverty line or a secondary school or higher education is positively associated with participation in Hezbollah. We also find that Israeli Jewish settlers who attacked Palestinians in the West Bank in the early 1980s were overwhelmingly from high-paying occupations. The conclusion speculates on why economic conditions and education are largely unrelated to participation in, and support for, terrorism.