Politica
Piazza Fontana, 12 dicembre 1969: la giustizia è perduta, la verità ancora no
Milan-Roma 12 dicembre 1969: qualche minuto dopo le 16:30 un’esplosione avvolge di sangue e fiamme le persone presenti nella Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana, ancora aperta come solitamente avveniva il venerdì. Diciassette morti e ottantotto feriti lasciano Milano in un attimo di calma oscura e cenere poco prima che il terrore e il caos si impadroniscano dell’intera città. Si scoprirà più tardi che sempre a Milano presso un’altra banca, la Comit, era stato posto un altro ordigno rimasto inesploso e fatto poi brillare. Altri tre ordigni deflagreranno a Roma lo stesso giorno, ferendo impiegati e passanti e danneggiando non gravemente luoghi e monumenti. In tutto i feriti fra le due città ammonteranno a centocinque. E’ l’assalto al cuore del Paese, è la strategia della tensione che impazza ma i cui segnali erano già stati lanciati nei mesi precedenti attraverso i diversi attentati verificatisi presso sedi universitarie, luoghi commerciali e treni. In realtà erano state preparate altre due bombe da far scoppiare sempre a Milano, come parte stessa della strategia, e l’Unità lo riportò subito. La memoria tuttavia fa presto piazza pulita di molti fatti fondamentali e ciò che potrebbe essere importante nel ricostruire sin dall’inizio una dinamica si perde per sempre lasciando spezzato il racconto sulla verità.
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Highbury (Islington) Londra, maggio 2014. In un distretto della media bourgeoisie a Nord della City vive un giornalista di origini scozzesi che negli anni caldi di cui parliamo era corrispondente dall’Italia per l’inserto domenicale del The Guardian, The Observer. Neal Ascherson, allievo di Eric Hobsbawm, alla carriera dello storico ha preferito quella giornalistica e negli anni fra il 1960 e il ‘90 ha inseguito tensioni nelle parti più calde d’Europa per The Observer e per The Independent on Sunday. Oggi scrive e tiene corsi prestigiosi nelle università inglesi ma quei giorni delle bombe era lì fra Roma e Milano a cercare le sue fonti.
L’incontro. Ti apre la porta di casa con un sorriso timido e sorpreso a un tempo dopo che un po’ sospettoso al telefono si domandava e domandava come mai quest’interesse ancora oggi per una storia così lontana. «Perché non è ancora finita quella storia» la risposta «come lei ha scritto proprio in occasione degli attentati italiani del 92-93 sull’Independent nell’ articolo “Bombs will not push angry Italians to anarchy” nel quale fa un paragone fra le stragi mafiose in cui morirono i giudici Falcone e Borsellino, gli attentati ai monumenti avvenuti fra Roma, Milano e Firenze e gli eventi che lei ha seguito da vicino qui in Italia attorno e dentro Piazza Fontana fra Roma e Milano. Le inchieste di entrambi si aprono e richiudono spesso senza mai trovare una soluzione e soprattutto dei colpevoli o dei mandanti». Calabria Road e Corsica Street: lo scherzo dei nomi di vie italiane o quasi ti avverte che Mr. Ascherson è più familiare di quanto si possa pensare. E’ lì che Neal abbandona un po’ di resistenza e reticenza a parlare ancora di quel periodo e ti accoglie nel suo studio, un piccolo tempio: una scrivania circondata da alti scaffali pieni di libri e taccuini conservati in contenitori di plastica. Lui non ricordava dove avesse messo quello che serviva alla nostra discussione: «Aiutami a cercarlo, spero di trovarlo», erano divisi per anni e paesi da cui inviava o dettava i suoi articoli. Trova il contenitore giusto e chiede di prenderlo. Un gran piacere da portare a termine tutto il giorno se richiesto: quell’uomo aveva raccontato per primo il vero nodo da cui ancora dipendono fatti fondamentali della politica e dell’attualità di questo Paese.
La ricerca. Il contatto partito via e-mail dall’Italia si verifica per curiosità mentre immersi in una ricerca apparentemente fuori tempo si trovano i riferimenti di cui alcuni giornalisti e storici hanno parlato e scritto, quelli che definiscono lo schema di destabilizzazione passato in Italia direttamente dalla Grecia e i suoi colonnelli nel lontano 1967. Dal 14 dicembre di quarantacinque anni fa, l’espressione «strategia della tensione» è entrata a far parte del vocabolario politico, culturale e storico italiani declinandolo anche ai fatti successivi degli anni in questione. Spesso questa si utilizza, appunto, seppure con più cautela, anche per definire l’obiettivo delle stragi terroristico-mafiose del 1992-93 oggi oggetto di inchiesta dei magistrati di varie procure, e non solo in termini di analogia storica anche nel concreto, visto che per molte stragi di poco precedenti, l’esplosivo e la sua provenienza si sono rivelati gli stessi (da Piazza Fontana al Rapido 904 passando per la strage dell’Italicus). La definizione nel caso degli attentati a Falcone e Borsellino è più moderna: «destabilizzazione», e certo altri gli esplosivi, ma il filo intessuto lo stesso: creare motivi di tensione sociale e di disordine pubblico fino a destabilizzare un Paese, per poi proclamare la necessità di rimettere ordine e ristabilire equilibri. Succederà più e più volte ma Piazza Fontana anche rispetto alla strage di Bologna del 1980 che provocherà molti più morti, resta la madre delle stragi.
Le istruttorie di Milano e Treviso. Un altro giornalista, inglese, Leslie Finer, entra come testimone nell’istruttoria di Milano, la più controversa e per certi versi la più decisiva rispetto alle successive (fino all’ultima archiviazione molto recente del settembre 2013). Nonostante il fatto che fu oggetto di depistaggi e gravi errori. Uno dei terroristi coinvolti nell’organizzazione, la figura più ambigua del gruppo ordinovista, Giovanni Ventura, confesserà a Guido Lorenzon il primo testimone e suo amico che diede inizio con la sua collaborazione al giudice Stiz di Treviso a svelare la pista nera nelle inchieste sulla strage: “E’ importante che passino dieci giorni e non si troverà mai più nulla”. Ventura, imputato insieme a Franco Freda, Pietro Valpreda e ad altri fra anarchici e neo fascisti, sarà riconosciuto colpevole nel 2005 solo quando non sarà più punibile nè imputabile così come Franco Freda cui era molto legato. Ma non è Finer a coniare quell’espressione. Finer pubblica il 7 dicembre, molto prima rispetto all’esplosione dunque, su The Observer e The Guardian contemporaneamente, un rapporto il dossier Kottakis che fornisce la prova del collegamento diretto fra le autorità greche e i gruppi neofascisti romani. E’ un momento cruciale: l’Europa deve decidere se espellere la Grecia dei colonnelli per violazione dei diritti dell’uomo, per l’uso sistematico della tortura, e per la violenza perpetrata nelle carceri. Per l’Italia votare a favore dell’espulsione avrebbe significato andare contro gli Stati Uniti che avevano appoggiato il golpe dei colonnelli due anni prima. L’Italia non si pronuncerà mai in merito. Finer testimoniò ma alla fine il rapporto non fu ritenuto valido in sede giudiziaria.
The strategy of tension. Due giorni dopo la strage, un lungo articolo di Neal Ascherson spiegherà la matrice del tentato golpe e indicherà nel presidente italiano Giuseppe Saragat il referente del «partito americano» in Italia che avrà ordito e permesso quella strategia. Scoppia la bufera: «E’ successo che alcuni giornalisti italiani mi hanno usato per pubblicare contenuti che non osavano pubblicare loro stessi per paura di essere accusati del reato di “calunnia”. Dopo che fu pubblicato il mio articolo – in cui Neal afferma che – “far from encouraging chaos the Italian communists have emerged as the Party of Order” (lungi dall’incoraggiare il caos, i comunisti italiani sono emersi come un partito dell’ordine”) riferito alla grande unanime compostezza di reazione agli attentati sia dalla parte dei cittadini che del partito comunista – : «la stampa italiana mi accusò di aver predisposto un attacco a Saragat. Insomma mi sistemarono». La sua firma sull’articolo “bomba” che detterà a The Observer uscirà il 14 dicembre 1969: e Saragat dopo anni accuserà Giangiacomo Feltrinelli di aver ordito alle sue spalle insieme ai giornalisti inglesi attraverso quell’operazione mediatica. Il taccuino Ascherson lo ha inviato poi qui in Italia, in prestito, affinché si potesse meglio trascrivere il valore della testimonianza: un grande gesto per un giornalista.
D:«Quindi è stata una fonte italiana a indicarle motivazioni e definizioni di quel golpe?». A pranzo, in una piccola “trattoria italiana” dai gusti inglesi con l’agenda aperta tra di noi Neal Ascherson ripercorre quei giorni che aveva deciso di porre in un archivio mentale, anche perché aveva subìto degli attacchi pesanti dall’Italia, quando invece il suo Paese attraverso il quotidiano più autorevole allora e ancora oggi aveva denunciato il tentativo di golpe in essere. Sfogliamo quelle pagine e i ricordi tornano nitidi così come le spiegazioni.
Le fonti italiane mai emerse. R:«Certo, due giornalisti dell’Espresso da cui andai a Roma prima e a Milano poi per seguire gli eventi: Antonio Gambino e Claudio Risé (Gambino e Risé entrambi interni a L’Espresso allora, ndr)» Mi mostra i numeri di telefono, gli appunti e i nomi segnati allora sul taccuino e ricostruisce quei giorni anche in termini emotivi.
R: «Al momento dell’esplosione mi trovavo nei pressi del monumento Vittorio Emanuele (il Vittoriano, dove esplode il secondo dei tre ordigni su Roma alle 17.22, ndr), arrivai sul posto poiché non mi trovavo troppo distante e presi un pezzo di marmo come ricordo». In quell’esplosione danni non troppo gravi furono registrati al pennone alzabandiera, ai marmi e ai vetri dell’Ara Coeli mentre due furono le persone rimaste ferite (un carabiniere e una passante alla guida di una macchina).
D. «Lei sosterrebbe tutt’oggi in un editoriale che gli attentati del 92-93 secondo la sua esperienza siano stati fatti per “dirigere il fluire della riforme in una direzione specifica?”»
R:«Certo confermerei le mie opinioni di allora anche oggi: la complicità dello Stato e le oscure forze coinvolte».
Giuseppe Saragat. Il giornalista mostra anche gli appunti raccolti dalle sue fonti riguardanti l’uccisione del giovane poliziotto Antonio Annarumma a seguito dei gravi scontri che precedettero la strage. Il 19 novembre 1969, infatti, all’apice dell’autunno caldo movimenti studenteschi di sinistra, le tre maggiori confederazioni sindacali e migliaia di cittadini parteciparono allo sciopero la cui adesione toccò il 95%. La morte del poliziotto fu subito attribuita ai dimostranti sebbene nessuna versione attendibile lo provò anche in seguito, mai, e il presidente della Repubblica Saragat invia un telegramma di una gravità eccezionale a Restivo (Franco, allora Ministro dell’Interno ndr) nel quale indica da subito che la morte del poliziotto fu un «odioso crimine (…) il cui scopo è la distruzione della vita». Una sorta di innesco per tutto ciò che successivamente a destra si mobiliterà.
La censura di Eugenio Cefis alla stampa italiana e la riunione preparatoria. Neal Ascherson però non sa che un giornalista italiano tentò di raccontare ciò che stava succedendo in modo tale da sventarlo e far intervenire le autorità, lo scoop della vita insomma. E’ Camillo Arcuri allora cronista de Il Giorno dalla Liguria che soltanto dopo molti anni racconterà la storia della censura nel libro “Colpo di Stato” (Bur Edizioni, 2004 e varie ristampe dopo). Nel settembre del 1969 Arcuri ebbe dall’allora presidente della Commissione Antimafia Francesco Cattanei copia di un rapporto dei Carabinieri su alcuni incontri preparatori tenutisi l’estate appena trascorsa in una villa della riviera ligure tra industriali, uomini politici ed estremisti di destra. Arcuri racconta che un politico, Alfredo Biondi del Pli, gli confermò l’avvenuta riunione al quale lui però, così gli riferì, non prese parte. Il rapporto dei Carabinieri datato 16 giugno 1969 che pubblichiamo qui in esclusiva ce lo invia gentilmente lo stesso giornalista su richiesta.
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Erano gli anni della travolgente e a volte ambigua controinformazione soprattutto militante che come scrive Aldo Giannuli nel suo “Bombe a Inchiostro” (Bur edizioni, 2008) “fu un fenomeno del tutto minoritario” il quale “tuttavia ebbe effetti durevoli” (…) una sparuta e poverissima armata Brancaleone che fece qualcosa di molto più grande di sé”. Tra di loro un nome su tutti, Marco Nozza, ma la testimonianza di Camillo Arcuri quasi passata inosservata nelle varie ricorrenze sulla strage dice qualcosa di significativo ancora oggi. L’ex onorevole Biondi ferma subito Arcuri:«Il Giorno non pubblicherà mai niente. Forse non sai che il legale di Cefis è Nencioni (Gastone, tra i fondatori dell’MSI e avvocato di parte in molti processi sull’eversione ndr). Arcuri non potette crederci lì per lì ma così andò.
Finalmente, dunque, il documento il rapporto Borghese, spiega meglio di qualunque altra cosa che Junio Valerio Borghese si era messo all’opera per organizzare il golpe già prima dell’8 dicembre 1970.
Nella lunga fase processuale che ha caratterizzato Piazza Fontana qualcuno è stato condannato definitivamente per falso ideologico in atto pubblico e favoreggiamento personale: l’ex generale Gianadelio Maletti del reparto D del servizio segreto Sid (l’unico ancora vivo residente in Sudafrica e tuttora protagonista diretto e indiretto di tante inchieste aperte) e un suo ufficiale Antonio Labruna. Altri neofascisti, uomini dello Stato e finti anarchici sono stati assolti.
Bibliografia:
Bombe a Inchiostro (Bur Edizioni 2008) di Aldo Giannuli
Colpo allo Stato (Bur edizioni 2004-2007) di Camillo Arcuri e gentile concessione documento
Il segreto di Piazza Fontana (Ponte alle Grazie 2009-2012) di Paolo Cucchiarelli
Fonte intervista a Guido Lorenzon: Il Gazzettino del 5/5/2005 a firma di Giuseppe Pietrobelli
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