Partiti e politici

Torna la Lega di Bossi

23 Ottobre 2017

Diciamocelo francamente, nessuno si aspettava un risultato così, un’affluenza così elevata, di quasi due terzi del popolo veneto e di oltre un terzo di quello lombardo. Si pensava: il quesito referendario lascia un po’ il tempo che trova, una richiesta ai cittadini affinché le Regioni possano intavolare trattative con lo Stato centrale per cercare di ottenere maggiore autonomia su tematiche non certo decisive per i territori locali. Una cosa talmente vaga, e oltretutto già prevista dalla legislazione vigente, che assomigliava ad una cambiale in bianco su cui si potesse scrivere una somma non superiore a pochi euro.

Si pensava: gli elettori delle due regioni in ballo si accorgeranno della inutilità sostanziale delle richieste, e se ne staranno a casa, a pensare ai guai un po’ più seri che attanagliano la propria esistenza. E invece è capitato, è capitato che in tanti sono usciti per andare a deporre la propria scheda fisica (in Veneto) e virtuale (in Lombardia) nell’urna. Gridando a gran voce: vogliamo più autonomia!

Ora che i risultati (quasi) definitivi sono finalmente disponibili, pur con qualche imbarazzo per la performance non certo brillante del voto elettronico, possiamo provare a trarre alcune conclusioni da questo sorprendente voto. In particolare mi sembra di poter sottolineare tre elementi di interesse.

1. La grande capacità comunicativa dei promotori del referendum. Molti dei cittadini che si sono recati al voto hanno in parte dimenticato, volutamente o meno, i confini dell’oggetto referendario, aggiungendone di propri, e in particolare una richiesta non presente nella scheda: vogliamo più autonomia fiscale, vogliamo che le tasse che dobbiamo mandare a Roma rimangano in misura molto maggiore nella nostra regione. Questo sotto-testo è stato sempre presente nella comunicazione di Maroni e Zaia, che pur sapevano benissimo che quella richiesta era impossibile da ottenere. Ma sono stati molto bravi ad evidenziarla, senza mai pronunciarla direttamente.

2. La svolta leghista, che ritorna ad abbracciare le tematiche care al suo primo leader. Consciamente o inconsciamente, i due presidenti lombardo-veneti hanno riattivato uno dei principali argomenti di Bossi, quando fin dagli anni Novanta aveva puntato sulla (presunta) volontà dei cittadini settentrionali di distaccarsi progressivamente dalla famosa “Roma ladrona”, per gestirsi in maniera autonoma i frutti del proprio sudato lavoro, senza dipendere dallo Stato centrale: un federalismo fiscale che è stato sempre presente nel discorso bossiano. Ora che Salvini tenta di creare una Lega nazionale, questi temi sono difficili da toccare, pena una profonda alterità nei suoi confronti da parte degli elettori centro-meridionali. Zaia e Maroni paiono essere di diverso avviso.

3. Il “sorpasso” della Lega nella competizione interna al centro-destra con Berlusconi. Se ci sarà il Rosatellum, la scelta di chi correrà nei collegi uninominali dovrà a questo punto privilegiare candidati leghisti, a scapito di quelli di Forza Italia, vista la capacità di mobilitazione che sembra essere appannaggio della comunicazione della Lega. Se vorrà vincere, presumibilmente, in tutti o quasi i collegi settentrionali, Berlusconi dovrà far buon viso alle maggiori probabilità di successo del suo antagonista interno. Lui lo sapeva, e ha cercato negli ultimi giorni di fare una sorta di fronte comune al referendum, senza peraltro riuscirci appieno.

Infine, un ultimo dato che già il nostro direttore Jacopo Tondelli ha sottolineato nel suo articolo di ieri: Milano pare essere realmente un mondo a parte, diverso non soltanto dal resto d’Italia, ma anche dal resto della Lombardia. Un’isola.

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