Governo
Renzi mi ricorda molto un tale che si improvvisò editore
Ho lavorato con (e per) un editore che a Renzi assomigliava moltissimo, non per via morfologica anche se entrambi tendevano a una pinguedine variamente pronunciata, ma come sistema di lavoro. Tutti e due proponevano le due fasi, parallelo calcistico per dire che spingevano molto e poi difendevano in maniera anche scomposta, tutti e due pensavano d’essere indispensabili in ogni momento della produzione e per questo non delegavano nulla, tutti e due si beavano di poter fare agevolmente anche il secondo mestiere a cui erano stati chiamati, l’editore il primo, pur non essendolo di professione, il presidente del Consiglio, il secondo, pur non essendolo mai stato (prima).
Fare due mestieri e tenerli entrambi a un livello alto è virtù di pochi, e i pochi sono conosciutissimi sulla crosta terrestre per essere considerati dei mezzi fenomeni, se non proprio interi. Diciamo che i due non sono esattamente tra questi. L’editore sbarcato (tardi) nel mondo dell’editoria credeva di sapere molto se non tutto del nuovo cimento, e proprio per questo si poneva assai poco in quello stato di osservazione che permetterebbe al neofita di parlare, osservare, sottolineare, solo dopo aver capito certi meccanismi, certe sfumature, certi processi inevitabili che animano un giornale. Il presidente del Consiglio, che prima faceva “solo” il sindaco, pensava (e temo pensi) che una poltrona valga l’altra, e che le capacità del singolo facciano premio su tutto il resto dei problemi. Abbiamo visto come spesso, nella sua nuova vita da premier, questa ferrea convinzione non abbia pagato e la figura epocale da cioccolataio nella quale è incappato recentemente – ah quel maledetto 3% – è una ferita che durerà nel tempo.
Questi limiti strutturali, di quell’editore e del nostro premier, hanno inevitabilmente un centro, riconducibile a una cronica mancanza di collegialità. Nel senso che sia uno sia l’altro, cristallizzato il consenso dei propri collaboratori, governano l’impresa nell’illusione di fare il bene comune pur decidendo nella loro splendida solitudine. E spesso la loro decisione non è la migliore per l’impresa. Qui non parliamo della giusta, doverosa, responsabilità del leader, al quale toccherebbe la sintesi finale di un grande lavoro di squadra. No. Qui parliamo di professionisti che attribuiscono a se medesimi un valore percentuale esageratamente alto rispetto alla realtà dei fatti.
Nel caso di quell’editore e del nostro presidente del Consiglio c’è un salto illogico, una diseguaglianza preoccupante, tra ciò che essi illustrano con l’entusiasmo, il coraggio, la visione di persone che vogliono cambiare davvero lo status quo, e poi la conseguente applicazione dei principi enunciati, che per primi loro stessi contraddicono. Nel caso di Renzi, ad esempio, è prima di tutto ridicolo, ma poi decisamente preoccupante, che pubblicamente gli sia cara la figura dello spaccone, a cui si ispira quotidianamente dedicando un certo tempo, rispetto alla facilità con cui manine più o meno sotterranee, più o meno esperte, si infilano tra le pieghe dei suoi racconti da bar mandandogli all’aria i progetti migliori. E se il mestiere è quello del presidente del Consiglio di tutti gli italiani, che è un bar un filo più allargato e decisamente meno improvvisato, l’impressione che rimane non è esattamente delle migliori. Così l’editore (che assomiglia a Renzi), al quale non faceva difetto una roboante visione delle cose, ma che poi alla prova dei fatti non sapeva mai arrivare a una conclusione produttiva e definita.
Anche sui principi, i due una cosa dicevano, una cosa facevano. I principi sarebbero quei cinque o sei snodi chiamiamoli pure etici o comunque riconducibili a un certo decoro professionale. Insomma un’idea di stile che dovrebbe sempre accompagnare anche la figura più professionale. Ecco, lo stile. Che invero mancava nell’editore, cui faceva difetto una certa coerenza rispetto al nodo dei conflitti di interessi sanciti dalla solenne ispirazione liberale del giornale (non si sta dichiaratamente da una parte se il giornale istitutivamente non sta da nessuna parte e con nessuna parte), e che manca in Matteo Renzi, pur essendo anch’egli un bravissimo figliolo. Ma insomma, non ci si fa pagare la casa da un amico che lavora nel tuo ambito se sei personaggio pubblico, non ci si balocca con l’aerone di stato per farti quattro sciatine in montagna. Ti prendi la tua Pandina e pedali (o a pedali, volendo).
Infine, per una rarissima coincidenza del destino, i due, l’editore e il presidente del Consiglio, sono particolarmente vocati all’istituto del licenziamento, a cui hanno dedicato chi un’intera riforma – il premier con il Jobs Act – chi una poco onorevole, e assai poco giustificabile, interruzione del lavoro nei confronti di un dipendente. Entrambi temiamo non abbiano per nulla calcolato le conseguenze, che all’editore da quel giorno infelice debbono essere state drammaticamente chiare, mentre per quanto riguarda il presidente del Consiglio non tarderanno a farsi sentire.
È per questo motivo che si può serenamente concludere che un secondo mestiere non sono capaci di farlo.
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