Quirinale
Napolitano, se ne va lo zio puntiglioso che dettò domande, risposte e virgole
Il 22 settembre 2023 è morto a 98 anni Giorgio Napolitano. Ripubblichiamo il ritratto che gli dedicó Peppino Caldarola il 31 Dicembre 2014, quando Napolitano annunció le sue dimissioni da Presidente della Repubblica.
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I ragazzi e le ragazze della sinistra barese, appena usciti da uno sconvolgente ’68, lo chiamavano zio Giorgio. Non c’era alcuna intimità in questo modo di riferirsi a lui, solo che Napolitano era zio di due belle ragazze della Fgci, l’organizzazione comunista giovanile: Silvia, sceneggiatrice cinematografica, e Susanna, giornalista, figlie del fratello Massimo, architetto di chiara fama a Bari.
“Zio Giorgio” veniva in Puglia assai spesso, la vecchia classe dirigente operaia e bracciantile era amendoliana e quindi napolitaniana, anche se poi lo tradì diventando in parte seguace di Cossutta, mentre le giovani leve intellettuali seguivano Pietro Ingrao. Napolitano era allora come lo abbiamo visto per tanti anni. Serio, scarso di sorrisi, persino un po’ gelido, anzi molto gelido quando sospettava che l’interlocutore fosse di un’altra parrocchia di partito – perché è bene sfatare la leggenda del centralismo democratico: nel Pci il gioco delle correnti era sotterraneo ma ferreo. Gli piacevano gli uomini grigi.
Un giorno ne teorizzò la funzione in un Comitato federale del Pci barese (era il piccolo Comitato centrale di periferia) che doveva eleggere il nuovo segretario provinciale. Napolitano aveva scelto un bravo ragazzo, universitario fuori corso, di poco evidenti qualità che però piacquero tanto al grande capo che lo sostenne allora e negli anni successivi fino a quando poi il suo protetto passò con Berlinguer al punto che pur essendo di Palo del Colle, paese a pochi chilometri da Bari, teneva le sue relazioni ai Comitati federali con una accentuata inflessione sarda. Il Pci era fatto anche così.
In questo Pci Giorgio Napolitano era uno dei dirigenti maggiori. Non era fra quelli che scaldava i cuori. Per capirci non era Amendola, Ingrao, Paietta. Né aveva il carisma discreto ma prepotente di Enrico Berlinguer, ma i comunisti del popolo erano fieri di lui, di quel gran signore che sembrava uno di “quegli altri ma stava con noi”. Il suo linguaggio era preciso, i ragionamenti senza una piega o una punta di retorica, i toni diventavano in certi momenti vibranti (vecchia scuola amendoliana) ed era anche la “bestia nera” degli ingraiani, una categoria che al Sud raccoglieva una buona parte dell’intellighenzia.
Di Napolitano si diceva che era de ferro ma con scarso coraggio. Negli ultimi anni di vita di Amendola, il vecchio capo condusse le sue battaglie sull’inflazione e l’estremismo operaio, in polemica spesso esplicita con Berlinguer, praticamente da solo. Non aveva zio Giorgio la capacità affabulatrice di un altro grande vecchio della “destra” comunista, quel Gerardo Chiaromonte, ingegnere, di chiacchiera fluente e anche lui di cultura mostruosa, che si occupava più che dei giovani della sua corrente di quelli che stavano lontano dai “miglioristi”, secondo una definizione che il filosofo politico Salvatore Veca diede dei dei riformisti del Pci, di quelli come Napolitano, definizione che, per la verità, spopolò, soprattutto nella Milano di Craxi. Né era, Napolitano, ragionatore freddo sulla politica come il suo caro amico Emanuele Macaluso, un grande cronista parlamentare mancato, che ha fatto per decenni il bello e il cattivo tempo a Botteghe Oscure, né la facondia colta del latinista Paolo Bufalini, uomo di collegamento fra Vaticano e comunisti.
Giorgio Napolitano è sempre stato un uomo a sé. Si sapeva che era di importanti letture, che era molto filo-occidentale, anche se non si segnalavano grandi gesti di rottura verso l’Urss. Fu addirittura il primo dirigente comunista ad essere accettato negli Usa dove venne accolto con grandi complimenti parlando, stupor mundi, un inglese fluente. Della sua vita privata si sapeva poco. I figli, le carissime nipoti, gli ozi, rari, di Capri, le frequentazioni intellettuali. Per un certo tempo toccò anche a lui dirigere la Commissione culturale del Pci che, come potete ben capire, era uno snodo importante e seppe farne un luogo di confluenza di gente di varie aree.
Il personaggio però non tirava, per così dire, l’applauso. I suoi compagni napoletani, dove aveva molti seguaci e altrettanti odiatori incalliti, gli fecero anche in tarda età lo scherzetto di non eleggerlo in parlamento. Quando arrivò Occhetto, lui e l’intero mondo migliorista ebbe una crisi gastrica essendo l’ondivago nuovo capo del Pci quanto di più lontano ci fosse da una cultura fondata su radici forti. Napolitano per decenni è stato descritto come avversario di Berlinguer, ma era una avversità virtuale perché l’attuale presidente uscente della Repubblica non amava lo scontro a viso aperto anzi non amava lo scontro. Fu più volte, e con lui Lama, in procinto di diventare segretario di quel partito comunista che lui disegnava da tempo come una formazione socialdemocratica alla stregua della Spd tedesca, ma gli mancò sempre il coraggio della battaglia finale fino al punto che al congresso di Roma quando Achille Occhetto lanciò il “nuovo Pci” poche settimane prima di scioglierlo, Napolitano assisté senza poter far nulla alla cacciata dagli organismi dirigenti di suoi amici e soprattutto della covata di giovani della sua area.
Negli anni che precedettero la sua ascesa al Quirinale lo si descriveva come stanco e malato, estraneo a una politica dominata dalla covata berlingueriana che aveva solo due dirigenti che a lui piacevano appena un po’, Massimo D’Alema e Piero Fassino. Poi accadde che D’Alema subisse il veto dei suoi compagni di partito e soprattutto di Fini e Casini (per invidia generazionale), e dovette ritirarsi dalla gara indicando, così lui dice e io gli credo, il nome di Napolitano. Tutti si aspettavano di veder arrivare al Colle una vecchia icona della sinistra, addirittura un vecchio comunista, che avrebbe fatto il notaio. Invece sappiamo come è andata.
Il Napolitano presidente è un po’ il contrario del Napolitano precedente. La sua proverbiale discrezione si è trasformata quasi in invadenza, il suo timore di incrinare l’onda è diventata invece essa stessa spesso onda impetuosa, solo lo scorrere degli anni lo ha portato alla lacrima più facile mentre prime lo si reputava, sicuramente sbagliando, privo di commozione. È stato uno degli uomini migliori della Seconda Repubblica di cui hanno bisogno anche i ragazzi della Terza. Gente così ce n’è poca in giro. A differenza di molti politici contemporanei è colto, conosce il mondo e i mondi, ha capacità di lettura degli animi dei suoi interlocutori. Quel dirigente comunista forse a disagio, anche se se ne guardava bene dal manifestarlo, nei riti del vecchio partito, da quella storia ha ricavato un altissimo senso dello stato e un timore ancestrale verso le rotture istituzionali e soprattutto sociali.
In fondo in un paese in cui la sinistra è stata comunista nella sua maggioranza, Napolitano ha rappresentato l’altra faccia della socialdemocrazia, prima della scissione di Lenin, cioè quella “destra” del movimento operaio, parlamentarista e riformista. Questo suo navigare silenzioso, questo amore per i toni grigi lo ha portato anche ad errori colossali, come quando scelse quel segretario del Pci barese di cui ho raccontato o quando pensò che Monti fosse uno statista.
Di lui si narra la leggendaria puntigliosità. Tanti, ma tanti anni fa, giovane redattore dell’Unità fui mandato a intervistarlo, compito non ambito dai miei colleghi: lui mi fece gentilmente accomodare, mi conosceva bene ma non mi amava perché ero molto vicino ad Alfredo Reichlin suo amico e concorrente nel partito meridionale, e mi dettò domande e risposte e persino la punteggiatura della conversazione. Concluse chiedendomi di rileggere l’intervista dopo un’ora, perché voleva controllare che non avessi sbagliato alcunché. In fondo lo abbiamo amato anche per questo.
(Illustrazione di copertina, per Gli Stati Generali, di Thomas Libetti)
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