Quirinale

La necessità di un Presidente di cui essere moderatamente orgogliosi

17 Gennaio 2015

Tina Anselmi è viva e lotta insieme a noi. È il mio candidato al Quirinale. Per sensibilità, decoro di stato, storia partigiana. Complessivamente per stile. È piuttosto anziana, “ragazza” del ’27, ma afflitta da certe pene fisiche che non le permettono più di rispondere alla chiamata. Ma rimane lei, elettivamente, il mio candidato ideale: autorevole, saggia, percorsa da una storia dritta dentro un mezzo secolo tormentato in cui il doppio stato fu la notte della Repubblica. Non un presidente in quanto donna, ma un presidente in quanto Tina Anselmi. Lo sarebbe stato, altrettanto orgogliosamente, anche Emma Bonino ma la sua battaglia, di cui ci ha messo a parte, per il momento non contempla l’ascesa al Colle.

Sono questi, i dieci e passa giorni di nomi, di curriculum, di cene carbonare, nomi che entrano ed escono dalle terzine, le cinquine, le decine , le ventine. Via via si assottiglieranno in vista della prima votazione alla Camera, il 29 gennaio alle 15. Non sorprendano né scandalizzino i movimenti sotterranei che accompagnano la grande avventura quirinalizia, in fondo ci si gioca un po’ di faccia del Paese e visti i tempi non è poco.

Ognuno porta con sé un’identità che cerca di trasferire ai propri elettori, in un sentimento di saldatura ideale, nella convinzione che ciò che è meglio per un certo partito è decisamente il meglio anche per l’Italia. Questa idea nel tempo si è sempre più imbastardita, e in fondo anche nel mezzo secolo democristiano qualche crepa si è pur vista. Ai nostri tempi, raggiunto il potere certi partiti credono di abdicare sin troppo velocemente ai valori condivisi con gli elettori nella fase preparatoria alle elezioni, in un marameo sempre più beffardo rispetto a quel patto stipulato nella cabina elettorale. È il caso del Movimento 5 Stelle, ma in fondo anche del Pd di Matteo Renzi.

Prendiamo il Movimento 5 Stelle, a cui certi cronisti informati attribuirebbero la volontà di presentare al cospetto delle Camere riunite la figura di Nino Di Matteo, pm di Palermo, protagonista dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia (all’interessato sarebbe stata chiesta addirittura una disponibilità) . La figura di un pubblico accusatore, dunque, al Quirinale. Questo contrasterebbe in modo vistoso con i contorni di un arbitro, categoria che soprattutto chi non è attualmente al potere chiede con grande forza per contare su eguali garanzie. E soprattutto contrasterebbe in maniera aperta e radicale con quella che fu una scelta felicissima del Movimento nella seconda votazione che riconfermò Napolitano al Colle, quella di indicare una giurista serio e preparato come Stefano Rodotà, dalla storia certamente impeccabile. Una scelta di valore persino filosofico, oltre che intelligentemente politica, dal momento che mise in un certo imbarazzo larga parte del Partito Democratico. Gentile Grillo, che cosa è cambiato da quel giorno ispirato, che cosa è successo in Italia per immaginare di essere garantiti da un pubblico accusatore seppur autorevole come Nino Di Matteo? E qui non è neppure da rispolverare l’annosa convenzione istituzionale secondo cui un giudice non potrebbe sedere al ministero di via Arenula, ciò che produsse una vera frizione tra Napolitano e Renzi, quando il presidente del Consiglio indicato pose in lista il procuratore Gratteri a ministro della Giustizia, ricevendo il primo scappellotto della sua gestione, dovendo poi retrocedere precipitosamente sull’anonimo Orlando. Quello fu l’errore di un vecchio Presidente. Ma qui parliamo dell’Arbitro. Del Garante. Non scherziamo.

Anche il Partito Democratico di Matteo Renzi dovrà probabilmente schiarirsi le idee. Per non girarci attorno, al premier piace molto il suo ministro dell’Economia. Che, vale la pena ricordarlo, lui non sapeva neppure chi fosse alla composizione del governo. In quella casella ci voleva piazzare un “collega” sindaco, il simpatico e perbene ma chissà quanto preparato Del Rio, al che Re Giorgio prese carta e penna e gli segnò il nome di Padoan. Non come possibile alternativa, ma come obbligo da assolvere. La candidatura Padoan è di quelle – questa è la vulgata – che non farebbero ombra a Renzi. Facciamo pure che di questo aspetto ce ne possiamo tranquillamente impipare e passiamo alle cose serie. Il ministro Padoan è l’autore della cappellata storica del tre per cento (uscita dal suo ministero, la norma è comunque “sua”, anche se la manina fosse di un altro). Possibile che uscito da un simile incidente, possa tranquillamente ricevere un premio alla carriera come il Quirinale? No, non è possibile. Seconda questione: Padoan non ha una storia, non ha un racconto politico, non è accompagnato da alcuna narrazione, era certamente un bravissimo economista come peraltro ce ne sono moltissimi e allora, se questa è la stella polare, perché non eleggere direttamente due presidenti della Repubblica in una botta sola come Alesina&Giavazzi? (Perdonate l’ironia sulle cose serie, ma qui qualcuno sta perdendo la bussola).

Per carità di patria non vi tedierò con le scelte possibili di Forza Italia intanto perché sono alla canna del gas e non ne hanno. E quelle che hanno muovono a una carezzevole malinconia. Una è naturale conseguenza della nostalgia, è la tessera numero 2 di Forza Italia, il professor Antonio Martino, liberale, persona superperbene, ma così distaccato dalle cose da spegnere regolarmente il telefonino appena pranzato, “pigiamarsi” e infilarsi nel letto per la pennica pomeridiana (sua personalissima confessione del ’94). L’altro candidato azzurro dicono possa essere Pierferdinando Casini che tace da mesi perché ci crede. Anche in questo caso, non scherziamo.

C’è la necessità semplice e universale di avere al Colle una persona di cui essere moderatamente orgogliosi. Una persona che, ritornando a Tina Anselmi, ci ricordi la nostra storia, abbia le spalle grosse, uno sguardo fiero e soprattutto quell’autorevolezza politica per essere temuta e rispettata.

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