Quirinale

L’italian disaster di Napolitano, secondo Perry Anderson

15 Gennaio 2015

In un lunghissimo e minuzioso saggio ricognitivo sulla situazione di questi anni anni della politica europea, ma soprattutto italiana che lungi dall’essere un’anomalia europea è un concentrato di essa, apparso sulla rivista “London Review of books” del 24 maggio 2014 dal titolo emblematico “The italian disaster” firmato da Perry Anderson,  si può leggere un profilo al curaro dell’appena dimissionario Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il primo epiteto con il quale Anderson qualifica Napolitano  è quello di “Vicar of Bray”,  espressione popolare inglese che fa riferimento a una canzone satirica del XVIII secolo in cui sono cantate le gesta di un prete ( vicario) anglicano  che per mantenere i benefici ecclesiastici, in un’epoca in cui si alternavano vorticosamente i monarchi (che,  ricordiamo,  erano a capo della chiesa anglicana),  si piega alle mutate circostanze adattando i propri principi. Da qui, secondo Anderson, una lunga carriera vissuta da Napolitano in accordo a un principio fisso: “seguire la tendenza politica mondiale che in quel momento sembrava vincente”. L’allusione è alla guerra fredda e agli schieramenti tra i due blocchi e gli sviluppi successivi che hanno visto Napolitano cambiare campo fino a un atlantismo altrettanto intransigente quanto il filosovietismo di qualche decennio prima.

L’incipit di una lunga carriera si avvia, nella puntuale ricostruzione di Anderson, con l’adesione al GUF (Gruppo Universitario Fascista) “mentre l’Italia inviava truppe a sostegno dei nazisti che si apprestavano ad attaccare la Russia”,  segue l’adesione nel 1945 al PCI in cui Napolitano fa nel giro di un decennio una folgorante carriera che lo porta a diventare membro del Comitato Centrale, e trova i suoi momenti clou, da comunista allineato e intransigente, nel sostegno alla sanguinosa repressione delle truppe dell’URSS contro l’Ungheria nel 1956 che non gli impedirà  di affermare, nel Congresso  del PCI nel novembre di quell’anno, che   l’intervento sovietico avrebbe  dato un deciso contributo non solo a impedire la caduta  dell’Ungheria nel caos e nella controrivoluzione e a salvaguardare gli interessi strategici e militari  dell’URSS, ma anche a “salvare la pace nel mondo”.  Segue il plauso all’espulsione di Solgenitsin reo di aver spinto, lui, l’URSS fino a un punto di rottura e di non ritorno, quindi, d’intesa con Giorgio Amendola, l’assenso all’espulsione del gruppo del “Manifesto” che protestava per l’altra invasione sovietica  di Praga nel 1968.  Il tracciato della carriera di Napolitano è seguito quindi nella stagione berlingueriana dell’Eurocomunismo, del compromesso storico, nel sostegno ellittico alla politica craxiana, che si espresse sotto traccia senza cioè  rompere platealmente con il gruppo dirigente del PCI, con l’adesione al gruppo dei “miglioristi” che in quegli anni a Milano fiancheggiava  il leader indiscusso del momento Bettino Craxi, gruppo politico quello dei miglioristi che fu anche investito dalle inchieste della magistratura nella stagione di Mani Pulite (Anderson trova il modo di citare anche  la vicenda di Giovanni Battista Zorzoli  “one of Napolitano’s followers”, condannato per tangenti). Infine l’inarrestabile carriera all’interno delle Istituzioni dopo il 1993  fino alla suprema Magistratura repubblicana.

Sono costernato per l’approccio secco  di Perry Anderson in questo suo saggio  e per i suoi giudizi impietosi su Napolitano,  colto tra l’altro a lodare come statista una persona, Craxi, condannata dopotutto a 27 anni di prigione, per una “monumental  corruption”. Ma le cose che scrive sono semplicemente vere (e sarebbe stato bene ricordarle con semplicità e per completezza anche nei servizi agiografici che si sono susseguiti nella tivù in queste ore al momento del congedo), e messe in fila, un fatto dietro l’altro,  danno una idea precisa dell’azione politica del nostro ex Presidente  collimante con la verità storica. Non meno impietosa, per dire il tipo di approccio di Anderson,  è la brevissima ma ficcante ricostruzione della carriera di Mario Draghi all’ombra di Goldman Sachs, la banca che aveva assecondato la falsificazione dei conti pubblici greci e che si era ampiamente meritata in America il nomignolo di  “vampire squid”.

Perry Anderson non è né Vittorio Feltri né Alessandro Sallusti,   è persona seria e intellettualmente onesta. E conosce molto bene e di prima mano,  da storico delle idee, il panorama intellettuale italiano e le nostre vicende politiche. Giusto in questi giorni ho preso in mano un suo volumone (quasi 500 pagg) messo da parte a suo tempo perché tutto non si può leggere all’impronta. Il volume si intitola “Spectrum. Da destra a sinistra nel mondo delle idee” (Baldini & Castoldi Delai, 2008) e contiene, tra gli altri, due saggi molto acuti su due intellettuali italiani, il primo su Norberto Bobbio e il secondo  su un mio mito personale: Sebastiano Timpanaro,  di cui Anderson è stato amico personale e di cui ha ospitato negli anni ’70 nelle riviste della sinistra inglese, numerosi contributi poi raccolti nel volume “Sul materialismo” (Nistri-Lischi, Pisa 1970 e 1975). Saggi  di spesso e greve profilo teorico e di intricata discussione polemica con quel  marxista  italiano che iniziava coraggiosamente in quegli anni una rigorosa analisi teorica che lo avrebbe portato al distacco dalla dottrina comunista (Lucio Colletti), ma scritti in cui Timpanaro invece avversava esplicitamente il riformismo oltre che ogni revisionismo e si pronunciava apertamente per la soluzione rivoluzionaria.

Anderson si è già occupato del nostro Paese in un altro volume sempre di storia delle idee,   “Al fuoco dell’impegno” (Il Saggiatore, 1995), dove campeggia, tra gli altri, un altro bel saggio su Norberto Bobbio e uno su Carlo Ginzburg e reca per epigrafe “Per, e contro, Franco Moretti”. Questo per dire che non è l’ultimo arrivato o l’ultimo giornalista che orecchia il clima intellettuale e politico italiano. Inoltre Anderson è di formazione marxista, nel cui alveo è rimasto,  come un altro   intellettuale inglese, Eric J. Hobsbawm, altrettanto noto in Italia,   e nei decenni scorsi aveva accesso alle case editrici italiane di sinistra e agli stessi periodici del PCI dove spesso, negli anni ’70, appariva in traduzione qualche suo saggio. Un marxista che critica aspramente un ex comunista italiano quale Giorgio Napolitano. Lo dico con afflizione personale anche perché assalito da dubbi sul nostro ex Presidente che lo scritto di Anderson mi aiuta a sciogliere.

Sono convinto che le intenzioni di Napolitano siano state serie e meditate, e in qualche modo tutte ispirate dalla buona fede e dal desiderio sincero di tirare dal pantano la navicella della politica italiana rimasta incagliata in una crisi senza fine. Per uno della mia età che ha avuto la sorte di essere stato governato da gente come Pietro Longo, Aristide Gunnella o Mario Tanassi, Napolitano appare sicuramente un gigante politico.  Credo tuttavia che il suo conservatorismo senile; la sua eccessiva prudenza; i suoi enormi rimorsi da ex comunista gli abbiano instillato il desiderio di adottare comportamenti nella direzione totalmente opposta a quelli di una intera vita politica al fine “catartico” di dimostrare, prima di tutto a se stesso, la fuoriuscita da un sistema di idee a cui non credeva più (tipica sindrome da ex); e che  la sua propensione anche a un protagonismo da “salvatore della patria”, abbia, alla distanza complicato non poco il quadro politico italiano o comunque non contribuito al suo scioglimento in tempi accettabili grazie anche a qualche passo falso come l’innamoramento per un tecnico, Mario Monti, rivelatosi pessimo politico.

La sindrome dell’ex o la gestione complessa della sua exeità (copyright di Giuliano Ferrara) credo che abbia giocato un ruolo non secondario nella sua azione politica. Sembra, a dire il vero,  che Napolitano sin dall’inizio sia vissuto politicamente sotto il segno ambivalente di chi sta sotto un nome e non condivide la cosa o difende la cosa senza dirne il nome. Sembra cioè che abbia vissuto sempre da ex nella sua vita politica o in quella condizione  di “marginal man” evidenziata da Everett Stonequist nel lontano 1937 nel saggio omonimo.  “The marginal person is poised in the psychological uncertainty between two (or more) social worlds; reflecting in his soul the discords and harmonies, repulsions and attractions of these worlds…within which membership is implicitly if not explicitly based upon birth or ancestry…and where exclusion removes the individual from a system of group relations.” Uomo marginale o  uomo cerniera che è stato a cavallo tra due mondi, il capitalismo e il comunismo, il sovietismo e l’atlantismo difendendo con tenacia convinzione entrambi, con parole, opere e anche con pensieri si suppone,  ma senza mai dire e dirsi ciò che si fa e ciò che si è apertis verbis, dando un nome alle cose, preferendo piuttosto esprimersi per fatti concludenti e nel frattempo, con millimetrici spostamenti e slittamenti progressivi,  passare da una posizione estrema all’altra.

Già agli inizi si diceva – inizi che Anderson non ricorda o non sa –  quando a Napoli aderiva a quel comunismo che secondo Anna Maria Ortese si poteva definire un “liberalismo di emergenza” appare questa particolare condizione dell’anima. Un comunista che era già liberale nell’epoca in cui Brancati diceva che per essere liberali bisognasse votare “almeno” comunista? In seguito dentro le ragioni sovietiche ma già con in corpo i dubbi e gli scetticismi dell’eurocomunista? Insomma nella sua esperienza politica felpata e sempre cauta, forse in maniera eccessiva ed estenuante, raramente la cosa è conseguenza del nome, e di converso il nome mai è diretta conseguenza della cosa. Uno scarto tra le debilitate ragioni del reale e la sua esasperata rappresentazione verbale ove l’intelligenza si muove cauta e con circospezione cerimoniale, assecondata da giri di frase di una prosa italiana, perfetta e lustra nei suoi ampi periodi assennati e nel suo lessico scelto, ma alla lunga sfiancante e ipnotica proprio perché eccessivamente verbosa, procedente com’è per ampie  volute secentesche. (Leggere qualche  resoconto parlamentare difficilmente si riesce a cogliere d’emblée il “cuore” del suo discorso. Si veda questo contro lo SME ).

Ma passando al mondo dei fatti ne enucleo almeno tre dell’ultimo scorcio della sua vita pubblica che  sono, questi sì,  contenuti nella millimetrica analisi di Anderson, e che personalmente gli rimprovero. 1) la gestione della prima crisi del “sistema Berlusconi” dovuta all’azione politica di Gianfranco Fini nell’autunno del 2010. Di fronte alle bordate dell’ex leader di AN sempre più convincenti e quasi vicine al successo, l’aver rimandato Napolitano la “conta” in parlamento di un mese, al 14 dicembre di quell’anno, tra i seguaci e gli oppositori di Berlusconi, diede a quest’ultimo il tempo preziosissimo per ricompattarsi e trovare un pugno di “responsabili” (Scilipoti e Razzi) che lo salvarono. Durò dieci mesi questa salvezza, quando i mercati  nel luglio –novembre 2011 indussero sia Berlusconi che Napolitano a un passo da entrambi forse subito (il governo Monti). La motivazione di Napolitano di quel rinvio fu che occorresse approvare la legge di bilancio. Vero, ma è solo la motivazione di facciata. 2) Non aver assegnato un “mandato pieno” a Bersani subito dopo le elezioni del febbraio 2013. La prassi parlamentare non lo vietava. Napolitano fece andare in giro come un folle Bersani per due mesi, al solo fine di logorarlo. Aveva pronta già la soluzione moderata, Enrico Letta,  con un ritorno in partita di Berlusconi, ma  una soluzione che non aveva più chances di quelle di Bersani come s’è visto ancora altri  10 mesi dopo; 3) la rielezione. Non doveva accettare, troppo pesante un Paese complesso come l’Italia sulle spalle di un novantenne ormai sempre più preda di crisi di commozione.

La cautela e la circospezione di Napolitano assunte in dosi massicce unitamente a quintalate di “dissimulazione onesta”, e inoltre,  essere egli stato più Erasmo che Lutero in un Paese che non ha mai conosciuto Riforme né intellettuali né morali, né fratture, né rotture, né discontinuità di sorta,  tutto ciò ha  condotto il Paese, in questi anni come sempre – anche grazie alla sua azione mai controcorrente-, a trovare sempre un accordo con se stesso, un rimpannucciamento con i propri vizi e i propri ritardi, rimandando così in un futuro vago e indistinto  il momento  in cui dirsi finalmente la verità.  

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