Partiti e politici
Aveva detto “cambierò tutto”: per ora Zingaretti cambia solo la sede del Pd
Chi temeva o magari dava solo a intendere, pur senza crederci troppo, che la gestione Zingaretti avrebbe portato ad accordi col M5S o a svolte a sinistra può stare tranquillo: il nuovo segretario del PD sembra decisamente più a proprio agio nel dialogare con esponenti del centrodestra, da leader di partito come da governatore del Lazio.
Con la presentazione del simbolo elettorale per le prossime europee il neosegretario del PD Nicola Zingaretti suggella se non una linea politica almeno un’indicazione di rotta nella sconquassata geografia politica italiana. E fornisce l’occasione per rispondere a una basilare domanda: in che misura i primi atti dello Zingaretti segretario confermano le suggestioni della campagna elettorale delle primarie? Il governatore del Lazio, lungi dal presentarsi – gliene va dato atto – come un rivoluzionario, si era accreditato come la guida per superare senza scossoni il renzismo, inteso come metodo di gestione solitaria del partito e ricerca di consensi nel bacino elettorale del centrodestra, a scapito della tradizionale collocazione del PD nel centrosinistra, pur con la ‘vocazione maggioritaria’ rivendicata all’atto della fondazione nel famoso discorso di Veltroni al Lingotto. Un’attitudine che Renzi e i suoi avevano descritto, con la consueta esagerazione propagandistica, evocando lo spettro di uno Zingaretti che fa accordi coi Cinque Stelle e, forse anche peggio, fa rientrare nel partito i traditori D’Alema e Bersani. In questo modo alle primarie Renzi delimitava il terreno dello scontro e costringeva Zingaretti sulla difensiva, mirando non a vincere – che era impresa disperata – ma a utilizzare la disciplinata vocazione al martirio di Giachetti (già apprezzata a Roma) per una campagna elettorale mirata esclusivamente a ridurre il più possibile lo spazio di manovra dell’avversario una volta insediato alla guida del PD. Una tattica che sembra avere pagato.
Il primo atto di Zingaretti segretario del PD, con tutta la sua carica simbolica, è stato recarsi a Torino per sostenere la causa della Torino-Lione. Una scelta, che prescindere da qualunque valutazione di merito, rappresenta un assist alla Lega e una pugnalata alle spalle al M5S, con lo scopo evidente di accentuare le contraddizioni della maggioranza giallo-verde. Il secondo è stato rifiutare la sfida di Di Maio sul salario minimo, prima rispondendogli in modo un po’ demenziale che piuttosto fosse il Governo ad assumere la proposta del PD, poi annunciando l’intenzione di convocare due incontri in materia con le categorie produttive – sindacati e imprese – facendo finta di ignorare che entrambe hanno già detto senza mezzi termini di essere contrarie (per la precisione una circolare interna della CGIL datata 26 marzo, riconosce in qualche modo dignità alla proposta del M5S, pur giudicandola ‘pericolosa’, perché ‘ha un forte richiamo alla contrattazione collettiva e agli accordi confederali recentemente sottoscritti’, mentre liquida quella del PD come ‘irricevibile’, senza neanche entrare nel merito). Per quanto riguarda eventuali accordi coi Cinque Stelle dunque il PD pare essere in una botte di ferro, con Zingaretti come con Renzi.
Per quanto invece concerne i rapporti con destra e sinistra la principale mossa di Zingaretti in vista delle elezioni europee è stata la ‘lista unitaria’ col movimento Siamo Europei di Carlo Calenda, che vede tra i sottoscrittori del manifesto costitutivo, oltre a due noti esponenti di Confindustria come Alberto Bombassei e Paolo Merloni, un’infornata di sindaci di nota fede renziana come Dario Nardella, Giorgio Gori, Matteo Ricci, il sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Falcomatà, legato a Minniti e l’ex montiano Mario Giro e di cui lo stesso Berlusconi ha dichiarato di condividere molti punti. Del resto anche Calenda ha detto che tra Berlusconi e Di Maio sceglierebbe Berlusconi, così come è noto che Berlusconi ha una buona opinione di Calenda trasmessagli dal fido Gianni Letta. Proprio come Renzi poi Zingaretti ha cercato fino all’ultimo di imbarcare anche +Europa di Emma Bonino incassando un no impietoso. Ma Calenda è fiducioso e punta a superare il 30%, dimenticando di quando lui stesso ricordava divertito la battuta di Verdini, secondo cui se l’ex ministro si fosse presentato alle elezioni non l’avrebbe votato neanche sua madre.
A Zingaretti del resto va dato atto di essere coerente con le proprie scelte anche passate. Alla regione Lazio, ad esempio, dove Zingaretti era stato eletto l’anno scorso senza tuttavia disporre di una maggioranza in consiglio, essendosi fermato a 25 seggi su 51, dopo qualche mese di traccheggiamento, in cui era andato avanti grazie ai sei mesi di ‘tregua’ che i Cinque Stelle inizialmente gli avevano concesso, il futuro segretario del PD già a luglio era riuscito a reclutare due fuorusciti dal centrodestra, Enrico Cavallari, leghista, ex assessore di Alemanno, e Giuseppe Cangemi, Forza Italia, ex assessore di Renata Polverini. I due, una settimana dopo aver firmato un accordo programmatico in 10 punti col PD, venivano eletti rispettivamente vicepresidente del consiglio regionale e presidente del comitato per il monitoraggio dell’attuazione delle leggi e col loro passaggio in maggioranza vanificavano la mozione di sfiducia presentata dal centrodestra, che avrebbe potuto segnare la fine del secondo mandato del governatore dopo soli sei mesi di governo. Anche Cavallari in quei giorni fa rivendicava la propria interiore coerenza confermando di essere un uomo di centrodestra e di aver salvato Zingaretti ed evitato il ritorno alle urne, perché ‘Penso che siamo ancora divisi. Tutte le varie anime, Forza Italia, Fratelli d’Italia e la Lega stessa, stanno vivendo una fase di assestamento e di riorganizzazione. Andare al voto domani ci mostrerebbe divisi e porterebbe o ad una maggioranza gialloverde anche qui in Regione oppure addirittura alla vittoria dei grillini e questo va evitato’.
Insomma se qualcuno temeva che l’elezione di Zingaretti avrebbe comportato una svolta a sinistra e la cancellazione di cinque anni di trasformazione del PD dall’interno da parte di Renzi può stare tranquillo: nulla di quanto fatto da Renzi, almeno delle scelte sostanziali, verrà gettato alle ortiche. Come quando si dimise da Presidente del Consiglio per lasciare al mite Gentiloni il compito di dirigere un governo fotocopia del suo governo, Renzi ora lascia al mite Zingaretti l’amministrazione di un PD fotocopia del suo partito, di cui sembra proprio che l’unica cosa che potrebbe essere sacrificata sia la sede del Nazareno. E lui farà vedere di cosa è capace. Zingarenzi ci prova.
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