Partiti e politici

Viaggio nei cent’anni dell’Alto Adige in Italia

28 Agosto 2019

BOLZANO – Cento anni di Alto Adige/Südtirol in Italia. Un anniversario che in altri paesi sarebbe ricordato con dibattiti pubblici, conferenze, seminari ed eventi, e che qui, in questa ricca provincia alpina al confine tra mondo italiano e germanico, sembra essere stato messo in sordina. Confinato in un curioso limbo dal sapore profondamente democristiano (e del resto qui governa l’unico partito democristiano ancora vitale, in Italia).

A due passi dalla bella stazione dei treni, c’è il palazzo del Consiglio provinciale di Bolzano (Südtiroler Landtag in tedesco, Cunsëi dla Provinzia in ladino). Un palazzo sobrio, elegante, verdino, dal fascino mitteleuropeo, ma con una particolarità: sui suoi pennoni non sventola nessuna bandiera. Né il tricolore, né il vessillo rosso e bianco della Provincia autonoma di Bolzano – Alto Adige, né la bandiera blu della UE. Chi scrive è passata spesso di fronte all’edificio, e non ha mai visto alcun vessillo; e neanche le foto su Wikipedia, o su Google Maps, ne mostrano. Al contrario palazzo Trentini, sede del Consiglio Provinciale di Trento, espone tutte e tre le bandiere.

A un caffè vicino un pensionato ci spiega: «È per non far torto a nessuno. Alcuni vorrebbero vedere solo una bandiera, alcuni solo l’altra». La soluzione è non sventolarne nessuna. Una scelta molto democristiana, in linea con una politica che preferisce non affrontare certi temi, per paura di riaprire vecchie ferite.

E dire che l’Alto Adige/Südtirol avrebbe molto di cui essere orgoglioso. A parte un benessere economico molto diffuso, e una qualità della vita altissima, Bolzano è un esempio reale di come l’educazione, le regole, il rispetto dei diritti umani possano rimediare agli errori (e agli orrori) del passato. Una provincia dove cittadini di lingua italiana, tedesca e ladina convivono, lavorano assieme, e dove l’integrazione di chi arriva dall’Africa, dai Balcani o dall’Asia tende a funzionare bene. Un modello per l’Europa, insomma. A patto che non ci siano remore a dirlo ad alta voce.

L’appartenenza di questo territorio all’Italia risale, appunto, al 1919. Quando, con il trattato di Saint-Germain, il Tirolo cisalpino passò al Regno d’Italia con il Trentino, Trieste, la contea di Gorizia e Gradisca ecc. Come spiega a Gli Stati Generali Paolo Pombeni, professore emerito di scienze politiche presso l’Università di Bologna, e profondo conoscitore della regione, si tratta di una storia molto complessa. «Che ha costretto l’Italia a misurarsi con un problema che non era stato previsto nel Risorgimento: avere all’interno dei propri confini un territorio abitato da popolazioni culturalmente e storicamente appartenenti ad un altro riferimento nazionale».

Per lo studioso, il problema «fu sottovalutato al momento della conclusione del trattato che sanzionò la pace del 1919, e poi fu gestito malamente. In una prima fase con qualche tentativo di soluzioni tolleranti, poi subito distrutte dal fascismo; la scellerata politica del regime che mirava alla snazionalizzazione del Sud Tirolo fu un vero disastro nazionale. Dopo il 1945 si intraprese, saggiamente, la via dell’autonomia regionale, nel quadro di una situazione che oggettivamente non consentiva revisioni dei confini, e che doveva tenere conto di quanto era ormai successo».

Non c’è altoatesino o trentino che non abbia sentito parlare dell’accordo De Gasperi-Gruber, firmato a Parigi nel 1946. L’inizio della rinascita. Ma, appunto, solo l’inizio. Spiega Pombeni: «purtroppo la cultura centralistica che dominava allora l’amministrazione pubblica italiana, e un certo retaggio di tensioni fra i trentini e sudtirolesi (i primi non potevano dimenticare la sudditanza ad Innsbruck impostagli sotto gli Asburgo) resero difficile la gestione della prima fase dell’autonomia».

Anche per il diffondersi di mitologie para-irredentistiche oggi ignorate, «si ebbe la stagione delle bombe – prosegue Pombeni – che però, grazie al prevalere del realismo di tutti (SVP, governo romano, rappresentanze trentine), si chiuse con un grande accordo di successo che consentì di porre fine senza troppe lacerazioni a una stagione drammatica, e di dar vita a un impianto di autonomia multietnica che ha portato benessere, sviluppo, e che è potuta diventare un modello accreditato a livello internazionale».

Sin qui, l’oggettività scientifica dello studioso. Degno di nota, però, anche il punto di vista dei politici. «È vero, il centenario sta passando in sordina – dice Riccardo Dello Sbarba, consigliere provinciale dei Verdi del Sudtirolo/Alto Adige –. La politica ne sta lontana, come fosse una patata bollente. Oppure, forse, come se fosse una patata che non bolle più per nessuno». Per il consigliere, «fino agli anni ’50 del secolo scorso, l’Alto Adige era un’area povera. Adesso abbiamo la minoranza di lingua tedesca meglio tutelata d’Europa, e l’autonomia più sviluppata del continente: vengono anche dal Tibet e dalla Bosnia per studiarla. Inoltre, qui c’è uno dei PIL più alti d’Europa».

Insomma, una storia di successo «che si deve all’Autonomia, e all’accordo di Parigi del 1946 – continua Dello Sbarba. – Un accordo che prevedeva un compromesso, una duplice rinuncia, per ottenere la pace». La rinuncia da parte degli altoatesini di madrelingua tedesca alla richiesta di tornare in Austria, e la rinuncia della Repubblica italiana alla piena sovranità sul territorio di Bolzano. «In poche parole, voi rimanete in Italia ma vi autogovernate, godete di un’ampia autonomia – asserisce il consigliere –. Questo compromesso è stata la chiave della fortuna di questa terra, che adesso si può considerare una terra transfrontaliera che attira economia, turismo, anche interesse politico, sia da nord che da sud. Ciò si deve all’autonomia, e bisognerebbe avere il coraggio di dirlo, e di dirlo a chiare lettere».

Andreas Leiter Reber è segretario del partito indipendentista Die Freiheitlichen. A Gli Stati Generali dice: «credo che sia meglio dividere questi cento anni in due parti. I primi cinquanta, quelli sotto il fascismo e fino al secondo statuto di autonomia del 1972, sono stati segnati da una repressione sistematica del popolo tirolese, tedesco e ladino. Gli ultimi cinquant’anni sono stati una strada faticosa di sviluppo dell’autonomia. È stata una strada un po’ stancante, e ancora oggi abbiamo un’autonomia parziale: non abbiamo lo status di regione, siamo provincia, e in alcuni settori essenziali ci mancano ancora le competenze. E con ogni governo (in Italia spesso i ministri cambiano ogni anno) dobbiamo sempre tornare a difendere i nostri diritti di minoranza».

Tuttavia, continua Leiter Reber, «ci sono anche cose molto buone: gli ultimi cinquant’anni sono stati un periodo di grande operosità, siamo riusciti a rafforzare la nostra economia in molti settori. Tanti dicono che la nostra economia è così florida perché l’autonomia ci dà più soldi, ma non è questo. La gente in Alto Adige ha lavorato tantissimo. Qui i contadini lavorano anche fino a duemila metri, è un lavoro durissimo. Certo, la nostra natura è bellissima, siamo una meta turistica importante…»

Uomini come Leiter Reber sognano un Alto Adige indipendente nella UE, «una piccola Svizzera dove non dobbiamo definirci italiani o austriaci, ma tutti sudtirolesi, ognuno sempre con la propria madrelingua». I Freiheitlichen sono il quinto partito del Consiglio della Provincia; al pari degli indipendentisti della Süd-Tiroler Freiheit, possono contare solo su due seggi. Meno della SVP (15), dei liberali progressisti del Team Köllensperger (6), della Lega (4) e appunto dei Verdi (3). Ma più del PD, del M5S e di Fdi, ciascuno con un unico seggio.

Che le cose stiano cambiando molto, lo si è visto nel comportamento degli elettori alle ultime elezioni provinciali. Altoatesini di lingua tedesca hanno votato la Lega di Salvini o il Team Köllensperger, altoatesini di lingua italiana i Verdi del Sudtirolo/Alto Adige. La stessa SVP, il grande partitone democristiano che raccoglie i voti degli altoatesini di lingua tedesca, ha visto calare la sua presa sull’elettorato. I due partiti storicamente in grado di intercettare i voti di lingua italiana, cioè PD e soprattutto Fdi (erede di AN), hanno subito una dura batosta.

«Alle elezioni i partiti secessionisti hanno subito una pesante sconfitta – osserva il giornalista Gerhard Mumelter, corrispondente dell’importante quotidiano austriaco Der Standard –. I Freiheitlichen hanno perso quattro dei loro sei seggi, mentre la lista civica di Köllensperger, un ex pentastellato, ha incassato sei seggi; in questo modo ha tolto la maggioranza assoluta alla SVP, che governa ininterrottamente dal Dopoguerra, e che dopo lunghe, sofferte trattative ha formato una coalizione con la Lega. E quelle di Köllensperger, dei Verdi e del PD sono liste interetniche».

Secondo Oswald Überegger, direttore del Centro di storia regionale della Libera Università di Bolzano, «benché i fronti etnici siano ancora in parte presenti, sono sempre più in erosione. Gli elettori dei tre gruppi linguistici sono diventati più mobili. Naturalmente, anche i problemi attuali svolgono un ruolo in questo contesto. Per molti elettori di madrelingua tedesca, specie nei comuni rurali, le posizioni della Lega sull’immigrazione sono state decisive e attraenti».

Überegger riconosce che «a livello politico si è molto cauti con questo centenario». C’è il timore, spiega, «che vengano create nuove “trincee mentali”. Paura di dibattiti che potrebbero polarizzare di nuovo la società altoatesina». Tuttavia, aggiunge, «molto sta accadendo in termini di rivalutazione storica. Il nostro Centro di storia dell’Università di Bolzano organizza cicli di conferenze, conferenze, e sta pubblicando libri sul tema».

Quanto indicato dai risultati elettorali e dagli studiosi emerge anche nelle conversazioni con i cittadini. Peter (il nome è di fantasia, su richiesta dell’interessato) è un tassista di Bolzano. A Gli Stati Generali dice: «Io ho votato Lega, alle ultime provinciali. Salvini mi piace, e la storia degli italiani di destra contro i tedeschi di centro è ormai roba vecchia. Avrei potuto votare Köllensperger, ma Salvini aiuta di più le imprese».

A Peter non interessa avere il passaporto austriaco, e per lui i cento anni del Sudtirolo in Italia non significano niente. Anche il suo collega Thomas (altro nome di fantasia) è dello stesso parere. «Siete voi media che scatenate le tempeste dal nulla. Basta che qualcuno deponga una corona di fiori lì, o canti una canzone là, ed è subito polemica. Neanche sapevo questa cosa dell’anniversario…» Un negoziante del centro storico osserva: «Sa quali sono i problemi, qui? I ricchi sempre più ricchi, e un’immigrazione incontrollata. Io a casa parlo tedesco, ma non ho problemi a parlare in italiano, e ho tanti amici meridionali». Un piccolo imprenditore di madrelingua tedesca è ancora più netto: «La politica internazionale, le vecchie questioni, tutta roba che non interessa più a nessuno, tranne che a politici e giornalisti. Siamo tutti nell’Europa Unita, e finché questa regge, ci sarà pace e benessere per tutti. Il passato non ci riguarda più».

Appartiene senz’altro a un passato doloroso il Monumento alla Vittoria, costruito dal regime fascista per commemorare la vittoria italiana sull’Impero austro-ungarico. Recintato per timore di attentati, e fino a pochi anni fa sfondo marmoreo di proclami, proteste e sit-in di ambo le comunità, oggi il Monumento sembra aver perso quell’aura di discordia. In compenso, ospita uno splendido percorso espositivo per ragionare su Bolzano, sulla sua storia travagliatissima (la città non subì solo il fascismo, ma dopo il 1943 fu amministrata, de facto, dal Terzo Reich), sui totalitarismi del XX secolo.

Il presente, invece, è soprattutto benessere. Che a Bolzano si tocca con mano; come pure a Merano o Bressanone. Passeggiando per le strade di Ora, grazioso comune alle porte di Bolzano, si ha la sensazione di trovarsi in un borgo elvetico: tutto è pulito e ordinato, le case e i negozi trasudano opulenza. L’economia altoatesina è in grande spolvero, come spiega Andrea Bonoldi, professore di storia economica all’Università degli Studi di Trento. «Tutti i principali indicatori – PIL pro capite, occupazione, ricchezza delle famiglie, occupazione femminile, distribuzione del reddito ecc. – collocano la provincia nelle primissime posizioni delle classifiche nazionali, e anche nel contesto della UE la provincia autonoma di Bolzano si piazza, per quanto riguarda il Pil pro capite, al ventiduesimo posto su 290 regioni, prima tra le italiane. Al di là dei dati quantitativi, anche la qualità e l’accessibilità dei servizi contribuiscono a definire elevati livelli di benessere».

Certo, le preoccupazioni per il futuro non mancano. A differenza della vicina provincia autonoma di Trento, ricorda Bonoldi, «che pur economicamente più debole ha investito da tempo in ricerca e alta formazione», per anni la gemella sudtirolese si è concentrata su altro. Ora sta cercando di recuperare, con forti investimenti nell’università e nell’innovazione.

Bonoldi tira le somme: «La situazione di benessere attuale è in gran parte frutto della tenacia, e della capacità di ragionare in prospettiva, delle componenti più lungimiranti della società locale e della politica italiana e austriaca. Tuttavia, vi sono ancora ostacoli che impediscono di godere pienamente del potenziale insito in una realtà multilingue, come le limitazioni che ancora sussistono nell’ambito dell’insegnamento scolastico bilingue, oppure nella politica culturale».

In effetti in Alto Adige/Südtirol si impara che le parole, i nomi, le lingue, sono importanti. Il 16 agosto ha fatto notizia il blitz notturno degli Schützen (associazione altoatesina tradizionale, organizzata gerarchicamente, e ispirata alle antiche milizie del Tirolo). I “cappelli piumati”, come li chiamano i media locali, hanno coperto i toponimi tedeschi di seicento cartelli stradali con l’adesivo “DNA seit 97J” (che starebbe per Deutsch nicht amtlich seit 97 Jahren, ossia il tedesco non è ufficiale da 97 anni). Una protesta contro l’antica questione della toponomastica locale.

Per Dello Sbarba, il gesto degli Schützen è clamoroso, ma l’obiettivo moderato. Per decenni, osserva, è stata messa in discussione la toponomastica elaborata agli inizi del XX secolo dal geografo irredentista Ettore Tolomei; i nomi italiani, insomma, non quelli in tedesco. Ora invece si discute di ufficializzare la toponomastica tedesca, che «non è ancora stata resa ufficiale – nota Dello Sbarba –. Quindi se non si rimettono in discussione i nomi italiani, e si chiede di riconoscere legalmente la toponomastica tedesca, implicitamente si riconoscono i nomi italiani. E io dico: a settembre va subito fatta una legge per ufficializzare i nomi tedeschi».

Di fronte alla sede dell’ateneo di Bolzano, gli studenti ridono e scherzano. Alcuni sono chini sui loro smartphone, altri parlottano (in italiano, tedesco e altre lingue) di esami e impegni. Sono pieni di vita, e se gli si accenna del trattato di Saint-Germain, di Tolomei o dei cento anni della provincia in Italia, ti guardano senza capire. Con loro forse è meglio parlare di Erasmus, di viaggi, di startup…

Il punto, osserva Mumelter, è che a cento anni dal trattato del 1919, «il sofferto confine al Brennero ha perso il suo valore simbolico. Sul varco più basso delle Alpi, dove sono transitate le legioni di Druso e Tiberio, e una sessantina di imperatori tedeschi per farsi incoronare dal papa, dove nel 1940 si incontrarono Hitler e Mussolini per rinforzare l’asse Berlino-Roma, nel 1998 il ministro degli interni Napolitano e il suo collega austriaco Schlögl hanno rimosso definitivamente le barriere. È iniziata l’era di Schengen, che ha abolito definitivamente quella frontiera di altissimo valore simbolico. Oggi laggiù passano milioni di tir, e il problema, da politico, si è trasformato in ecologico».

E in effetti i giovani che camminano per le strade di Bolzano forse si preoccupano di più per l’Amazzonia in fiamme che per la toponomastica bilingue. Per la Brexit che per i centenari. Quei ragazzi poliglotti e cosmopoliti sono la generazione di Schengen, di Obama e di Greta. Quei ragazzi sono il futuro.

Foto: V.Saini

 

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